di Danilo Arona
Capita di rado, ma capita. Che il critico o il saggista in genere sia a volte tentato di effettuare il salto della staccionata e darsi alla letteratura quando non al cinema. Tralasciando planetari casi celeberrimi (François Truffaut, Paul Schrader, Emmanuel Carrère), in Italia annoveriamo Roberto Cotroneo, amico e concittadino, che dopo la (temutissima) rubrica All’indice tenuta su L’Espresso, ha pubblicato eccelsi romanzi (tra i miei preferiti, il giallo Betty dove protagonista è Simenon che indaga su un misterioso delitto avvenuto sull’isola di Porquellores – e quale miglior detective?) e il decano Gianni Canova che nel 2010 manda alle stampe Palpebre, un nero molto crudo e ovviamente assai cinematografico.
Con tale retroterra, frammentario solo per mia colpa e che meriterebbe ben altro approfondimento, il critico cinematografico Mario Gerosa, autore di tante pregevoli indagini sull’immaginario visuale – eccellenti i suoi lavori su Robert Fuest e su James Bond, ha pubblicato di recente con l’alessandrina Falsopiano Il collezionista di respiri, thriller ambientato a Milano in cui nulla è ciò che sembra. E sin qui ci troveremmo di già nel solco di una tradizione da rispettare in cui le regole, se esistono, sarebbero di evidente derivazione cinematografica, al secolo “ciò che vedi, sullo schermo, non necessariamente esiste”. Ma Gerosa possiede un vissuto filmico, tale e tanto da dribblare con compiaciuto istrionismo ogni riferimento a una qualsivoglia tradizione. E lo scioglie nel testo con metodo lucido e consapevole. Milano quale la conosciamo nella realtà e nel cinema quasi non esiste, ma è un’entità astratta più affine alla fantascienza che al realismo apparente dei “giallos”. La maggior parte dei personaggi assolvono a surreali ruoli narrativi, comunicando tra loro con un impasto verbale citazionistico che rimanda ad artisti, pittori e protagonisti dell’arte moderna nel quale perdersi è di certo lo scopo occulto di Gerosa. Attorno all’odissea della protagonista Nina, in un girare a vuoto tra convegni, mostre d’arte e non-luoghi dove si parla sempre d’altro (perché l’Altro in ogni caso è tema portante in sottotraccia), il diavolo sta ancora nei dettagli, quasi sempre richiamati e sciolti nei dialoghi. E che dettagli: ibridazioni mostruose tra animali e umani, quadri “viventi”, amputazioni artistiche, collezionisti deviati e una clinica che pare una barkeriana anticamera dell’inferno gestita da discendenti di Frankenstein. Ma se l’arte è una malattia, anzi un Virus, a Gerosa non interessa suggerire cure (anche perché temo che non ne esistano…). Il pregio di questo lavoro, eccentrico al filone e persino diverso da quel che appare “da fuori”, sta nel cogliere l’humus comportamentale e dialettico di una sorta di “setta” in via di (pericolosa) formazione all’interno di una società appena distopica, ma non così lontana dalla grottesca realtà che stiamo attraversando. Forse non esiste un solo collezionista, ma più collezionisti come in un gioco speculare al rimando di moltiplicazione del Male. E nel marasma di citazioni, dal quale confesso di essere stato travolto, non avrebbe sfigurato il geniale rapper Frankie Hi-Nrg mc quando “canta” Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi. Benpensanti o malpensanti, qualcuno tenta a manovrarci. Soprattutto mentalmente.
Sono calzanti i riferimenti colti da certa critica al thriller all’italiana, a cominciare dall’Argento dell’epoca serial killer e proseguendo con la presenza centrale di una femmina protagonista, scaraventata dal fato in un una minacciosa e inquietante spirale in cui si slabbrano i confini della percezione. Ma secondo me, pagati i pegni dovuti, il merito di Gerosa è l’aver creato un raro equilibrio tra satira e tensione, tra lunghi ed estenuanti climax e anticlimax a prima vista risolutivi. E persino tra critica e narrativa, perché uno scrittore che dalla prima proviene mai si dimentica “il primo amore”.
Ci sarebbe ancora qualcosa da dire senza cadere nella trappola dello spoiler. Lasciando in sospeso – perché di sicuro è una faccenda da risolversi nel mio inconscio – che a me è venuto più volte in mente il classicissimo La statua che urla, scritto nel 1953 da Fredric Brown (secondo varie opinioni ispiratore de L’uccello dalle piume di cristallo), si potrebbe aprire un bel dibattito a proposito del titolo che, a libro finito, sembra porre qualche domanda di pertinenza. Ma forse sono io che eccedo nelle pignolerie. I titoli del cinema thriller all’italiana, modello indipanabile da questo romanzo, erano stupendi esempi di non senso, ma tra Gatti dagli Occhi di Giada e altrettanti felini in Labirinti di Vetro “suonavano” alla grande e assolvevano con diligenza alla funzione del richiamo promozionale, in quell’epoca meravigliosa di flani suggestivi e di slogan impagabili.
Insomma, è un bel titolo a prescindere, da non consigliare agli asmatici. E certi affondi mozzafiato della storia seminano il sospetto che il vero collezionista si chiami proprio Mario Gerosa.