a cura di Angelo Marenzana
Bellunese di nascita, Elisa Zambonini Durul, è l’autrice di Istanbul: il viaggio sospeso, recentemente pubblicato da Le dizioni della Goccia di Davide Indalezio. A seguito del matrimonio con un cittadino turco si è trasferita a Istanbul, dove tutt’ora risiede e dove ha proseguito l’attività didattica presso il Liceo Italiano come insegnante di inglese. Ciò le ha consentito di assistere alla rivoluzione culturale, sociale, politica ed economica degli ultimi trent’anni, che mostra oggi un paese profondamente diverso da quello da lei trovato al suo arrivo. Amante dei viaggi esotici e culturali, è attenta conoscitrice della cultura turco-levantina e della realtà di Istanbul.
Da qui nasce la storia di Lisa Andreoli, storia che si intreccia con quella della prozia Lisa Morpurgo, ebrea costretta col marito a una precipitosa fuga dall’Italia a causa delle persecuzioni razziali. Il viaggio dei due coniugi verso la Terra Santa, iniziato separatamente dai figli, si era interrotto a Istanbul, dove la coppia aveva trovato rifugio presso un’abitazione privata, per attendere l’arrivo dei figli. Qui i due avevano ricevuto l’aiuto inaspettato di Angelo Roncalli, allora vicario apostolico in Turchia, che in quegli anni era riuscito ad aiutare più di ventimila ebrei.
La pronipote Lisa Andreoli ritrova il diario di quegli anni, ma la sua lettura non sembra essere semplice rievocazione. Tra intrighi internazionali e personaggi senza scrupoli, Lisa mette in pericolo la propria vita e quella dei propri cari nel tentativo di dare il contributo a una causa giusta.
Un’avventura emozionante vissuta nel fascino di Istanbul e dei suoi paesaggi.
Buona lettura.
[…]
Salgo incerta le scale chiedendomi se mostrare o meno il reperto alle mie amiche. Quello che infatti temo è che esso sia legato in qualche modo alle visioni di Melisa, che vorrei tenere riservate. È stato inoltre un colpo per me trovare in quella cantina quell’accoppiata di nome e cognome che mi pone degli interrogativi. Decido di farlo comunque, nella speranza che la padrona di casa mi possa offrire delle spiegazioni.
Quando riemergo in terrazza, tutte mi seguono con gli occhi senza parlare mentre riguadagno il mio posto. Mi siedo dopo aver controllato che Melisa si sia veramente rimessa. Mi sento imbarazzata in quel silenzio, chiedendomi se il mio piccolo stratagemma sia stato smascherato.
«Hai trovato il telefono?» si informa Katia
«Sì e ho trovato anche altro. Mentre raccoglievo il cellulare ho curiosato nella falla aperta dagli operai nel muro e ho visto qualcosa di giallo. Giulia, tu ne sai niente?» rispondo mettendo sul tavolo il reperto trovato. Lei lo esamina con curiosità:
«Santo cielo Lisa, questo pezzo di stoffa più che me, sembrerebbe coinvolgere te. È il tuo nome con il cognome della famiglia di tua nonna!»
«L’ho notato anch’io e la cosa mi ha fatto una certa impressione. Tu conosci qualcuno che ha abitato qui sotto o sai qualche fatto importante accaduto in questo luogo?» domando guardando di sfuggita Melisa.
Giulia sorride rispondendomi:
«In effetti qualcuno che abitava lì lo conosco: monsieur Malisieu. Devi sapere che prima di acquistare questa casa ci venivamo in affitto d’estate, e quando noi abitavamo qui il padrone di casa si ritirava ad abitare al piano di sotto».
«Era ebreo?»
«No. Era un personaggio notevole e solitario che viveva a modo suo nutrendosi del pesce che pescava. Suo padre era di origine napoletana, ma lui preferiva usare il cognome della madre, una sarta francese che era stata la vera proprietaria di questa casa».
Potrei consultare Melisa, ottenendo magari qualche ragguaglio in più, ma non ho intenzione di entrare con lei in argomento qui, e mi riservo di farlo più tardi. Non posso certo esporla a giudizi negativi e superficiali da parte delle due donne per fatti che lei subisce suo malgrado. Inoltre, se vogliamo, potrebbero avere anche dei risvolti ridicoli diventando così oggetto di scherno. La guardo di nuovo di sottecchi e la vedo a disagio.
«Non ti nascondo che sono molto incuriosita e mi sarei permessa di fare qualche altra ricerca se la falla fosse stata più larga. Senti Giulia, promettimi che ti prenderai tu cura personalmente di controllare se il sotterraneo restituirà qualche altro reperto nei prossimi giorni, quando gli operai abbatteranno completamente quella parete!» […]
Leggo a voce alta per condividere lo scritto con Giulia. Naturalmente la lettura non è scorrevole perché mancano alcune parole o alcune sillabe. Cerco di colmare con l’aiuto del contesto.
Istanbul, 26 aprile 1944
[…] Ho chiesto questo quadernetto al nostro salvatore… prima del cibo. Almeno mi farà passare il tempo. Sul treno avrei pagato chissà cosa per averne uno, ma non ci sarebbe neanche stato il modo di scrivere. Era così pieno di gente che stavamo seduti a turno e sdraiati in turni ancora più rari. Ho tenuto un diario fin da piccola come fosse stato un libro, usando i miei parenti e amici come personaggi, curando i loro dialoghi, e sognando di scriverne uno vero un giorno.
Giungemmo fino in Bulgaria scendendo dai mezzi: treni, corriere, camion a volte, prima della frontiera e poi passando a piedi. Impiegammo quindici giorni da Trieste. Quella di Fernetti fu la prima frontiera che attraversammo in questo modo, poi continuammo cercando di adattarci di volta in volta alle circostanze. Dormivamo nei fienili, mangiando spesso quello che trovavamo in campagna. Avevamo dei dollari e delle lire con noi e li spendemmo nei rari posti dove li conoscevano e li accettavano.
A Sofia trovammo questo treno carico di ebrei che cercavano di raggiungere la Palestina attraverso la Turchia, e ci accolsero tra loro cercando di capire come avevamo potuto arrivare fin lì dall’Italia. E in effetti stentavamo a crederlo anche noi. Prima di salire sul convoglio avevamo fatto provviste, e dividerle con i compagni di viaggio ci aiutò a farci accettare. Con la lingua ci arrangiammo come potevamo. Ci capivamo certamente alla mattina e alla sera, quando recitavamo insieme lo Shemà. Come avrei potuto isolarmi in quel vagone con carta e penna?
Il terrore è diventato il nostro fedele compagno negli ultimi cinque anni. Dopo le leggi razziali del ’38 la nostra vita è diventata un inferno. Papà cominciò a sentirsi inutile quando perse il suo posto sia all’ospedale dove era uno stimato ginecologo, che all’università dove insegnava. In pratica si ridusse a fare la levatrice per i parti in casa degli altri membri della comunità, o il medico per qualche vecchia paziente affezionata che sfidava la legge per farsi curare da un professionista esperto come lui.
In quanto a me e mio fratello, dovemmo lasciare la scuola. Lui non sopportò di subire quel disastro con le mani in mano e fece bene ad andarsene. Meno male che mia sorella Lina aveva giusto fatto in tempo a sposarsi un paio di mesi prima della promulgazione di quei regolamenti scellerati, altrimenti poi le sarebbe stato proibito, visto che il marito è cattolico”.
Vedi?» dico interrompendo la lettura, «questo potrebbe corrispondere: mia nonna si chiamava Carolina, e Lina potrebbe essere un diminutivo. Coincide poi che si sia sposata con un cattolico, mentre l’altro fratello potrebbe essere quello che fuggì a Bursa e fece poi fortuna con le stoffe» […]
Non so cosa sarà di noi e se riusciremo mai a raggiungere, come vogliamo, i nostri figli in Palestina. Scrivo queste memorie per me, ma anche come testimonianza della nostra vita, e se dovesse succederci qualcosa forse potrebbero portare notizie di noi ai nostri figli che ora sono in mano a chissà chi.[…]
Carolina dopo il matrimonio si trasferì a Treviso, ma anche per lei la vita si fece difficile e in pratica, dopo un po’ di tempo, dovette andare a vivere clandestina nella soffitta di alcuni parenti di una nostra vecchia tata, che la nascosero nelle campagne del vicentino. L’aveva deciso soprattutto per non mettere in pericolo il marito e la sua famiglia, che non fecero d’altronde nulla per trattenerla. In quanto a Berto, una mattina, poco dopo la promulgazione della legge fascista del ‘38, quando ci svegliammo trovammo il suo letto vuoto.
Se ne era andato nella notte e per quasi un anno non sapemmo nulla di lui. Mamma e papà erano disperati e non si davano pace. Io piangevo la sua perdita quanto loro, ma un po’ mi aspettavo da lui un comportamento ribelle, visto che non aveva mai avuto l’atteggiamento paziente e rassegnato di mio padre. Constatando come ogni giorno i provvedimenti contro di noi si inasprissero, diceva che quella spirale di odio sarebbe finita solo con la nostra eliminazione fisica.
Papà aveva un bel cercare di convincerlo che diceva sciocchezze, perché il mondo non l’avrebbe mai permesso. E poi gli italiani non erano nemici degli ebrei come altri popoli! Berto diceva anche che non sarebbe stato con le mani in mano ad aspettare di essere arrestato o mandato chissà dove […]
Un giorno venne a trovarci un signore proveniente da Istanbul, che ci portò una lettera di Umberto in cui ci informava che era riuscito a farsi assumere come operaio in una fabbrica di stoffe in quella città. Un paio d’anni dopo venimmo a sapere che, con la sua competenza in ingegneria chimica, studi che aveva dovuto interrompere con le leggi razziali, aveva brevettato un sistema di tintura rivoluzionario. Molte ditte avevano a quel punto insistito per averlo e si era trasferito a lavorare a Bursa, il vero centro del tessile della Turchia, con mansioni da dirigente […]
I turchi sono neutrali, dicevano, ma poi ho sentito le voci che giravano sul treno. Parlavano della Struma, una nave con quasi 800 ebrei rumeni che veniva da Costanza con destinazione Palestina, che bloccarono qui per due mesi senza far scendere a terra nessuno. Alla fine li rimandarono indietro al porto di partenza, dove sarebbero caduti in mano a quei nazisti da cui avevano tentato di fuggire. Poco dopo la partenza, però, tutta la nave fu fatta saltare in aria, aprendo pesanti interrogativi sui veri autori dell’attentato.
Sul treno si diceva di tutto: il convoglio sarebbe stato fatto passare, avremmo avuto degli aiuti, ma forse no. Magari ci avrebbero fermato per un po’… io non volli correre rischi e neanche Guido. Non ci fidavamo di nessuno. “Mio fratello ha trovato da vivere a Istanbul, in qualche maniera ci arrangeremo”, pensai, “non possiamo rimanere prigionieri alla stazione pronti per essere rispediti indietro in mano ai fascisti, o peggio, ai nazisti.” Fu un vero colpo di fortuna il fatto che riuscimmo a scappare dal treno.
Da qualche tempo le case più fitte ci suggerivano che stavamo arrivando in città, anche senza che nessuno ce lo dicesse. Era scesa la notte e il treno era fermo da un po’. Eravamo molto inquieti e decidemmo di scendere senza correre il rischio di arrivare fino alla stazione. Il problema era trovare il modo. Fra la ressa insopportabile ci facemmo strada fino allo sportello di uscita. Provammo in tutti i modi ad aprirlo, mentre i nostri compagni di sventura ridevano di noi perché era bloccato in modo irreversibile. C’era una latrina lì vicino, talmente lercia e piena di escrementi che ci faceva nausea solo l’idea di entrarci.
C’era un puzzo insopportabile a cui eravamo un po’ abituati perché si spandeva per tutto il treno, ma lì era veramente disgustoso. Guido ci entrò sporcandosi fin quasi alle ginocchia e provò a forzare il finestrino. Non cedeva. Fuori cominciarono dei forti rumori ritmici che forse annunciavano la partenza del treno. Per terra in un angolo era appoggiato il lavandino di metallo che era stato divelto dalla sua sede. Coperto dai rumori esterni Guido dette un forte colpo al finestrino brandendo il lavandino. Il rumore del vetro rotto fu per noi come il canto della ninna-nanna della mamma: dolce, argentino, puro, in mezzo a quegli orribili escrementi.
Guido allungò un braccio e mi tirò in mezzo a quello schifo, sopra il quale però arrivava una ventata d’aria che non sentivamo più da tempo. Insieme, alternandoci nei movimenti in quel luogo così angusto, cominciammo a togliere i cocci del vetro allargando il buco aperto dal lavandino. Lavoravamo con rabbia, con furia, perché il treno stava probabilmente per partire e le nostre mani cominciarono presto a sanguinare. Bisognava fare presto per togliere i frammenti di vetro soprattutto dalla parte bassa dove avremmo dovuto appoggiarci per uscire. Passò Guido per primo e si lasciò cadere sulla massicciata. Io gli lanciai il fagotto e la borsa che contenevano tutto quello che ci era rimasto, e poi mi calai anch’io in braccio a lui. Rotolammo giù insieme e ci infilammo sotto ad alcuni cespugli bassi che ci graffiarono.
Poco dopo il treno cominciò a sbuffare e partì gemendo. Uscimmo dal nostro nascondiglio e ci baciammo forte. Ci eravamo liberati da quella prigione di lamiera e ora respiravamo a pieni polmoni aria fresca e pulita: eravamo insieme ed eravamo vivi. Questo era l’importante. Il buio totale era rischiarato dalla luce fioca di un quarto di luna. Ci sdraiammo sul terreno vicino alla massicciata e rimanemmo così per un poco, tenendoci per mano e guardando il cielo stellato.
Avevamo speso tutte le nostre energie nervose per la fuga, e ora eravamo come svuotati, senza voglia di pensare a quel che avremmo fatto. Ci trovavamo da qualche parte, non sapevamo dove, in un paese straniero di cui non capivamo la lingua e non conoscevamo nessuno, senza soldi. Tutto quello che avevamo era qualche lira italiana. E inoltre eravamo sanguinanti e sporchi di sterco dalla testa ai piedi.
Cercai di allontanarmi da Guido per la vergogna del forte odore che sentivo di emanare, anche se lui era nella mia stessa situazione. Però al di sopra delle esalazioni del nostro corpo si era introdotto un sentore nuovo, aspro ma piacevole. Chiesi a mio marito se anche lui non sentisse odore di salmastro e lui confermò la mia impressione aggiungendo che dal treno aveva notato, prima che si facesse buio, che si vedeva il mare. Gli chiesi poi quanto potessimo essere distanti dalla città.
“Non resta che andare a vedere. Andiamo Lisa!” mi rispose lui.
Le labbra mi si increspano in un sorriso: eccola la firma.
«Hai visto Giulia che alla fine il nome è saltato fuori? Questo è il diario di Lisa Morpurgo e abbiamo avuto la conferma scritta di nome e cognome».