La donna di picche di Remo Bassini [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

Vercellese di adozione (ma nato a Cortona), Remo Bassini ha diretto per dieci anni, in veste di giornalista, il bisettimanale storico di Vercelli, La Sesia, e ha collaborato con diverse testate (L’indipendente, Il Corriere nazionale, Il Fatto). Attualmente dirige il giornale on line Infovercelli24 e cura un blog su Il Fatto quotidiano. Come scrittore ha dato alle stampe Dicono di Clelia (Mursia), Lo scommettitore (Fernandel), La donna che parlava con i morti (Newton Compton), Bastardo posto (Perdisa Pop), Vicolo del precipizio (Perdisa Pop), Vegan. Le città di Dio (Tlon), La notte del santo (Fanucci).Nella scorsa primevera, sempre per Fanucci Editore, ha pubblicato La donna di picche riportando in scena la figura del commisario Bellavita.

La vicenda de La donna di picche viene ambientata dal suo autore proprio a Vercelli, dove, sull’uccisione di una donna uccisa in una chiesa con tre colpi di pistola in pieno volto, da oltre un anno le indagini non hanno portato alla soluzione del caso. La donna di picche è un giallo che narra l’incontro fra tre solitudini: quella del commissario Dallavita, che ha perso la stima di se stesso ed è a un passo dalla depressione, quella di Micaela Spini, ispettrice e collega di Dallavita, quella di Lucilla Malerba, figlia della vittima, maestra elementare di Vercelli. Dallavita, incaricato di far luce sul delitto, è forse alla sua ultima indagine. Certamente la più difficile.

Buona lettura.

 

                                                        La donna di picche

di Remo Bassini

 

A Pietro Dallavita avevo dato appuntamento in un bar di Corso Libertà, dovevamo vederci per le nove. Lo spiai dai portici, lì davanti. Arrivò puntuale, guardò l’interno del locale dalla vetrina e, vedendo che non c’ero, rimase fuori e si accese una sigaretta. Aveva un modo tutto suo per farlo. Usò un fiammifero, proteggendone la fiammella con il suo manone sinistro, chinando contemporaneamente il capo sulla destra; sembrava quasi volersi rannicchiare.

Certo che sei strano tanto, commissario Dallavita, quante sigarette fumi? Sei stanco di vivere? Da come guardi il mondo sembrerebbe di sì.

Non ricordo quanti anni avesse di preciso. Mi aveva detto di avere un figlio più giovane di me. E sua moglie? Non mi sembrava un uomo felice, forse era solo, forse come me…

E adesso cosa mi avrebbe chiesto? Dov’ero quando avevano ucciso mamma? Ero pronta, stavo arrivando, eccomi.

Pietro Dallavita mi guardò con la dolcezza che ben conoscevo, mentre sorseggiavamo il caffè. Ma fece presto ad assumere un’espressione diversa, dura; era un po’ come se si fosse cambiato d’abito. Aveva messo da parte l’uomo che si era lasciato incantare dai miei racconti in una trattoria torinese, e adesso si presentava a me come il sostituto commissario Dallavita.

Forza, domanda, pensai.

(…)

«Dimmi di te, ti sei laureata…»

«Faccio il mestiere più bello del mondo, tu che sei un poliziotto che legge li conosci di sicuro Gianni Rodari, Carlo Brizzolara, don Lorenzo Milani e Danilo Dolci, ecco, sono i miei maestri.»

«Ti brillano gli occhi quando parli del tuo lavoro.»

«Lo so, e ne parlerei in continuazione. Sai su cosa mi piace lavorare, ma tanto tanto? Sulla socializzazione. Vedi, la gente pensa che un bambino si trovi bene in una scuola se ci sono delle buone insegnanti, se la mensa tutto sommato è accettabile, se l’edificio è stato rifatto, e tutto è a norma, dove magari c’è pure qualche bidella di buona volontà che fuori ha piantato dei fiori. Ma ai bambini interessa altro, vogliono essere accettati. Sai perché i bambini mi amano? Perché se ne vedo uno che è in disparte, io intervengo, faccio i salti mortali ma voglio vederlo integrato, nel gruppo. Quando ci riesco, e non è sempre facile, la scuola potrebbe cadere a pezzi ma lui, il bam- bino, se ne innamora.»

«Tuo padre com’è morto?»

«Non te l’hanno detto?»

«Sì, ma vorrei che me ne parlassi tu.»

«L’ho perso che avevo quattordici anni, si è ucciso, l’hanno trovato nella sua auto di notte. Aveva il diabete, era stato sottoposto a due interventi chirurgici… Quando morì, la notizia del suicidio non trapelò, i giornali scrissero che era stato un malore, il classico arresto cardiocircolatorio; fu mamma che volle così, l’accontentarono. Si accontenta sempre una Paganica in questa città, anche se con i Paganica lei non voleva avere più nulla da spartire; disse che lo aveva fatto per me, ma a me non importava niente se la gente diceva che ero la figlia di un suicida, e in effetti qualcuno un po’ di tempo dopo lo disse. Io di sicuro non me ne vergogno, dica quel che cazzo vuole la gente.»

«Voglio rivedere il rapporto sul suicidio.»

«Non perdere tempo, dice solo che il corpo di mio padre fu ritrovato all’interno dell’auto…»

«Chi lo ritrovò?» «

«Segnalazione anonima, c’è scritto.»

«E capirono subito che si trattava di un suicidio? C’era un biglietto?»

«No, ma c’erano scatole e flaconi di farmaci, e una bottiglia d’acqua minerale. Ma tanto nel verbale, quanto nel referto dell’anatomopatologo, fu omesso che si era ammazzato.»

«Non è una procedura corretta, ma in fondo…»

«In fondo hanno solo taciuto la verità, certo.»

«E tua nonna paterna? È ancora viva?»

«Purtroppo non me la ricordo, è morta che io avevo tre anni. Lasciò a mio padre una discreta cifra che ci aiutò a vivere meglio. Mio padre ereditò anche una proprietà: una casa a ringhiera in periferia, al rione Isola, due stanze, un bagno. È la mia casa, ora.»

«Come ti trovi in questa città?»

«Prima che io nascessi penso che fosse una gran bella città, con tante fabbriche. Quando le fabbriche hanno chiuso, sono rimasti il riso e la Pro Vercelli. Però vedi…»

«Perché ti sei fermata? A cosa stai pensando?»

«Penso che quando ho vissuto a Torino, Vercelli mi mancava. Odio Vercelli, ma se fuggissi mi mancherebbe.»

«Pensi spesso di fuggire?»

«Devo prima trovare l’uomo della mia vita. Poi deciderò con lui. Fuggire per sempre vivendo di nostalgia… Se mai torni a veder lo dolce piano.»

«Sono versi di?»

«Dante Alighieri, l’Inferno. ‘Se mai torni a veder lo dolce piano, che da Vercelli a Mercabò dichina, ricordati di Pier Da Medicina…’ eccetera.»

«Parlami ancora di tuo padre. Perché si uccise?»

«Era un uomo di una vitalità incredibile, dopo un infarto scoprirono che era anche diabetico e lui, che mi aveva sempre insegnato a lottare, gettò la spugna. Ha vissuto gli ultimi due anni come una larva, l’ha ucciso la depressione.»

«Non ti sembra strano che non abbia lasciato un biglietto d’addio?»

«Se l’ha lasciato me l’hanno tenuto nascosto, ma non credo che l’abbia fatto

«Per quale motivo hai questa convinzione?»

«Preferirei non parlarne.»

Non mi hai fatto più domande quando hai alzato lo sguardo e hai visto che i miei occhi, solo loro, piangevano. La mia voce no. Erano calde le tue grandi mani sulle mie, e non mi fregava niente che ci guardassero, niente.