“Quelle voci sembrano affievolirsi sempre di più, sempre di più” [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

Ricordo ancora l’incipit di molti suoi articoli, al tempo in cui Tuttosport era un giornale sportivo davvero ben fatto, e io ero un bambino avido di racconti sullo sport.
Ricordo ancora quel “A Olivia e Marie, figlie mie”. E ne sono passati, di anni, dal tempo in cui Tuttosport era un giornale sportivo davvero ben fatto, e io ero un bambino…

Segno che GPO, come sovente si firmava, era davvero un gran giornalista. Perché sì, si può essere grandi giornalisti anche scrivendo di sport. Di esempi ne abbiamo molti, e GPO (per chi non legge di sport – male! – sta per Gian Paolo Ormezzano) adesso ce li racconta in ‘I cantaglorie’, uscito per ‘66th and 2nd’, casa editrice dal nome che potrebbe essere il titolo di una canzone sbilenca di Waits.

Suddividendo i colleghi in tre categorie (l’invito è a scoprirle leggendolo), anche seOrmezzano sottostà ai suoi racconti una demarcazione più reale, delineata dall’amore per il ciclismo e dallo scrivere di ciclismo, molto caro a Ormezzano ed evidente fin dal primo ritratto, quello dedicato a ‘Raro’, evidentissimo quando il racconto è per Mario Fossati “il massimo giornalista sportivo conosciuto, enorme ancorché inespresso, enorme perché pudicamente inespresso”, di nuovo scoperto nell’ammirazione per Sergio Zavoli, che il ciclismo aveva cambiato inventando il Processo alla tappa.

Un libro in cui, anche quando parla dei colleghi lui GPO c’è, sempre molto presente come in ottant’anni di vita (e quasi altrettanti di mestiere: “A sei anni, in precoce seconda classe elementare, dicevo che volevo fare il giornalista”) molti passati sulle strade e per stadi, fino a 300 giorni l’anno a correre dietro allo sport (forse così si spiega quell’incipit amorevole per le figlie viste troppo poco).

Ormezzano libroBrevi racconti dove anche la ricchissima aneddotica non stona, anzi… dalla avarizia da “biellese ortodosso” di Vittorio Pozzo, qui raccontato come cronista che andò alla partita fino agli ultimi giorni di vita (“Un grande uomo, enorme, unico. Non se ne fanno più, di uomini così, e se li facessero non si saprebbe proprio dove metterli”) e di Carlin (con le sue lettere di diffida “praticamente soltanto verso chi usava nei suoi articoli il verbo «iniziare» come transitivo”).
All’agendina telefonica di Gianni Minà, che la sera lo invita a una cena dove “ci sono anche Robert De Niro, Cassius Clay e quella celebre attrice americana dei serial, Farrah Fawcett”, GPO declina dicendo di dover cenare col papa salvo scoprire poi che De Niro, Cassius Clay e la Fawcett erano sul serio a cena con Minà, “l’italiano più conosciuto nel mondo da quasi mezzo secolo”.

Per me, che in fondo rimango tutt’oggi il bambino avido di racconti sullo sport, questo libro divorato in un fine settimana è prezioso come ore passate nuovamente a leggere Camìn, per cui confesso un’attrazione masochistica, lui che “si concentrava quasi esclusivamente… sulla Juventus”, io che fortissimamente detesto la Juventus e gli juventini, ma ancora ricordo ammirato la penna “barocca” del loro cantore.

O a riascoltare le preziosissime cronache televisive di Rino Tommasi (”in perfetto italiano ad alto tasso tecnico-statistico”) e Gianni Clerici (“in elegantissimo italiano ad alto tasso culturale”, ed eccolo qui fra l’altro il grande giornalista – e scrittore – anche scrivendo di sport).
Si leggono con affetto i ritratti di ‘I cantaglorie’, ormai anche le cose “tristi e vili” vissute in tribuna stampa (il Brera vecchio, “quando declinava fisicamente” e “gli stessi paggi che gli s’inchinavano pochi mesi prima presero a trattarlo malamente”), e con rimpianto perché molti di loro non ci sono più (toccante il ricordo di Maurizio Mosca che accettava di passare da “gran buffone” per pagare le spese mediche dell’amatissima madre), mentre gli altri se ne stanno velocemente andando via come nella scena finale di Radio Days, lasciandoci tanta nostalgia e, temo, nessuno che prenda il loro posto.