Sara è scomparsa di Luisa Rosa [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

Arianna arriva per una vacanza sull’isola greca di Naxos dove vive sua sorella Sara, archeologa di professione. Erano d’accordo che Sara sarebbe venuta a prenderla al porto, allo sbarco dal traghetto, ma non si fa vedere… E così prende il via la vicenda narrata in Sara è scomparsa, romanzo d’esordio di Luisa Rosa, appassionata lettrice, traduttrice dall’olandese e già affermatasi nel mondo della narrativa gialla con  Il segreto di Kazantzakis finalista lo scorso anno al premio Gran Giallo di Cattolica. Torinese, ex analista finanziaria, Luisa Rosa nel 2004 decide di dare una svolta radicale alla propria vita e di trasferirsi, insieme al marito, nell’isola greca di Naxos per dedicarsi alle sue vere passioni, in primis la scrittura. In perfetta simbiosi con le atmosfere che la circondano, Luisa Rosa si inserisce in maniera autorevole in quel filone del noir mediterraneo che, sulla scia di Jean-Claude Izzo, coniuga la luce, i sapori, gli odori, la musica dei paesi, nel caso la Grecia, che si affacciano su questo mare con il crimine, l’intrigo, il mistero.

 

Sara è scomparsa

di Luisa Rosa

 

Capitolo 2

 

La corriera finalmente parte con un rumore roboante del motore, acuito dalle forti vibrazioni dei finestrini. Esce dalla zona del porto e, sulla destra, intravedo per una manciata di secondi l’affollato e vivace lungomare.

Dopo un centinaio di metri, si apre a sinistra uno scorcio di intensa bellezza: imponenti faraglioni si tuffano a picco nel mare, dove alte onde si frantumano in un ribollio di spuma bianca. Con una repentina svolta a destra, che di colpo costringe tutti i passeggeri ad aggrapparsi alla prima cosa che capita, la stretta via si snoda di nuovo fra casette bianche situate ai piedi del borgo medioevale.

Superati un paio di incroci senza semafori, dove la frenetica circolazione si svolge senza apparenti regole di precedenza, ci fermiamo di fronte a una maestosa chiesa bianca con le cupole azzurre. Una scalinata di marmo conduce a tre imponenti portoni di ingresso.

L’anziana signora me la indica con il dito. Aghios Nikòdimos!” mi dice, facendosi più volte il segno della croce.

A questa fermata, la corriera si riempie all’inverosimile di donne cariche di borse della spesa e di studenti appena usciti da scuola con i loro zainetti colorati. L’allegro vociare e la musica dell’autista sono ora piuttosto frastornanti, ma sorrido se penso al contrasto con la noiosa e triste metropolitana di Milano.

Adesso stiamo attraversando una zona periferica, uscendo dal centro urbano.

Le colline, con le alte cime sullo sfondo, si avvicinano sempre più. I bordi della strada sono un’esplosione colorata di margherite bianche e gialle, alternate da papaveri rossi. L’intenso profumo del finocchietto selvatico s’insinua dal finestrino aperto. Una verde pianura di campi coltivati si estende tutto intorno, divisa in appezzamenti da canneti fluttuanti al vento. E poi ancora: prati con mucche al pascolo, capre, pecore e galline libere un po’ ovunque. A dire il vero non mi aspettavo di trovare un paesaggio tanto rigoglioso e verdeggiante dopo aver visto quelli aridi delle altre isole durante la traversata in traghetto.

D’un tratto mi rendo conto che le bellezze di Naxos mi hanno distratto per qualche minuto dal problema di Sara. La chiamo di nuovo al cellulare, ma è sempre spento.

Provo allora a supporre cosa potrebbe esserle accaduto oltre all’ipotesi di aver dimenticato il nostro appuntamento, improbabile però considerato il tono entusiasta del suo messaggio di invito. Forse ha avuto un incidente mentre veniva al porto, oppure si è solo fermata per un guasto dimenticando il telefono a casa. Mah… non so, cerco di tranquillizzarmi ma rimango comunque inquieta.

La corriera inizia ad arrancare su per le colline perdendo velocità. Attraversiamo un paio di candidi villaggi dove, all’unica fermata, scendono parecchie persone. L’autista ne approfitta per fare tappa in un piccolo kafeneìo. Esce con una sfoglia avvolta in un tovagliolo e il solito caffè freddo. Risale con tutta calma al posto di guida e, mentre è impegnato con lo spuntino, riprende la corsa su per i tornanti conducendo incredibilmente il mezzo con una mano sola. Alla fermata successiva, scende e ritira dei pacchi da un negozio consegnandoli a una signora nel paese seguente, sempre senza fretta e senza alcuna lamentela da parte degli altri passeggeri.

Dopo circa una ventina di minuti, durante i quali il baffuto conducente guida stavolta parlando al cellulare, mi rendo conto che dovremmo essere quasi arrivati al capolinea dai pochi passeggeri rimasti a bordo. Infatti, poco dopo, la corriera si ferma con una brusca frenata.

L’autista si alza, si avvicina e mi fa capire a gesti che è la mia fermata. Lo seguo fino al portellone laterale del bagagliaio. Lo apre per prendere il mio trolley e me lo porge gentile. Lo ringrazio in italiano nella speranza che lo capisca più dell’inglese, e difatti esclama sorridendo: “Ah… italiano? Una faccia, una razza!

Mi saluta cordiale alzando la mano e riparte. Dopo pochi secondi, sparisce dietro una curva che costeggia il ripido versante della montagna.

Rimango sul ciglio della strada guardandomi attorno spaesata.

E ora dove vado? mi chiedo.

Da un lato, la carreggiata è delimitata da una parete rocciosa, mentre dall’altro, guardando verso la valle dal punto in cui mi trovo, mi accorgo che il paesino si sviluppa in discesa sul pendio della montagna. È raggiungibile da una ripida scalinata ed è quasi impossibile scorgerlo da quassù, nascosto com’è dalla rigogliosa vegetazione.

Mentre mi accingo a riprendere il bagaglio, da dietro la curva, sul lato opposto della carreggiata, sbuca una corriera blu che mi passa davanti veloce. Con estrema sorpresa mi accorgo che alla guida c’è lo stesso autista baffuto di prima! È assolutamente impossibile che abbia potuto fare un’inversione di marcia con un mezzo così grande su una strada di montagna così stretta. Oltretutto, ripensandoci meglio, la mia corriera era anche di un altro colore… Mah! Inizio a credere che la stanchezza dopo due giorni di viaggio e la fame che mi attanaglia lo stomaco mi stiano giocando brutti scherzi.

Per fortuna, dalla corriera è scesa anche una signora di mezz’età con le sporte della spesa che lenta si sta avviando verso la scalinata. La seguo, affrettando il passo, per farmi indicare la casa dei coniugi Koufòpoulos. Quando le sono vicino, le nomino timida il cognome. Annuisce, mi dice qualcosa di incomprensibile, e mi fa segno di seguirla. M’incammino dietro di lei, trascinando il rumoroso trolley giù dai gradini lastricati.

Mili è un villaggio formato da una manciata di casette bianche con infissi e persiane azzurre, linde tendine di pizzo alle finestre, scale di marmo e davanzali ornati da vasi di fiori dai colori accesi. Mi accorgo che non esistono né numeri civici né targhe con i nomi delle vie: ecco svelata la mancanza dell’indirizzo nell’email di Sara.

Le strette vie sono lastricate con losanghe irregolari di pietra, contornate di bianco con cura meticolosa; ogni tanto, sparsi qui e là, un fiore, un sole o un cuore dipinti con la stessa vernice. Regna un silenzio irreale, interrotto solo dal cinguettio degli uccelli e dal fruscio del vento tra il fogliame delle piante che spuntano dai cortili interni. Gli unici abitanti del paese che incontriamo a quest’ora sono i gatti che dormono pigri sui davanzali, raggomitolati tra i vasi oppure all’ombra a lato della via.

La donna si ferma davanti a un uscio e mi fa segno di proseguire per il sentiero che conduce più a valle. Mi saluta e scompare nella fresca penombra della sua casa.

Man mano che avanzo in discesa, cercando a stento di rallentare la corsa del trolley, esco dal centro abitato.

La vegetazione è sempre più fitta e selvaggia. L’ombrosa mulattiera è costeggiata da una parete di roccia. Alla sua base, tra alte felci, l’acqua di un ruscello corre veloce con un piacevole gorgoglio. Il suo letto è formato da un verde cuscino di muschio e, ogni tanto, repentine variazioni di altezza provocano sorprendenti piccole cascate. Lungo il percorso scopro un paio di antichi mulini ad acqua, ormai ridotti a ruderi. Antichi muretti a secco delimitano il viottolo da lussureggianti giardini e orti coltivati.

Mi fermo un istante a riprendere fiato.

Ma questa è l’unica via per arrivare a casa di mia sorella? mi dico affaticata.

Alla fine dell’ultima scalinata, si apre una piccola radura con un enorme platano al centro. Il cammino prosegue aggirando il grande albero e, subito dopo, vedo due case costruite ai piedi di imponenti massi.

La prima è una piccola dimora su due piani, in stile neoclassico italiano, color  albicocca. Noto che, a differenza delle altre viste finora, ha finestre molto alte. Le persiane di legno e il portoncino sono di colore blu, abbelliti da una cornice intonacata di bianco. Sopra la porta di ingresso leggo ‘1868’, dipinto a mano.

La casa accanto è invece più semplice e più recente, tutta su un livello: una candida zolletta di zucchero con finestre e porte azzurre. La facciata è per metà ricoperta da un’enorme buganvillea che si arrampica fin sul tetto piatto, formando una meravigliosa cascata di fiori viola acceso.

Le due case sono divise da un giardino interno protetto da uno spesso muro di cinta, smussato negli anni da molte mani di vernice bianca. Fra le sbarre di un cancello in ferro battuto un po’ arrugginito, spicca una pergola di vite i cui rami scendono all’esterno del muro, tappezzandolo di un verde brillante.

L’acqua del ruscello scorre veloce di fronte alle case. Qui due lastroni di pietra liscia sono probabilmente usati ancora come lavatoio. Lo conferma la presenza di sapone e di un catino appoggiato a terra lì vicino, sotto ai fili di panni stesi al sole.

Mentre mi avvicino, penso che questo sia un luogo davvero incantevole e suggestivo. Ora capisco perché Sara abbia deciso di mollare tutto e di venire ad abitare qui, ormai già da qualche anno.

Non si vede anima viva, tranne un asinello legato al tronco di un mandorlo fiorito di fronte alla seconda casa.

Capitolo 3

 

A poco a poco la donna riprende conoscenza, ancora in posizione supina come l’hanno lasciata i due uomini. Apre e chiude gli occhi più volte, ma il buio totale che l’avvolge non l’aiuta a capire la sua nuova situazione.

D’istinto, si porta una mano alla tempia verso un punto dolente che pulsa al ritmo dei battiti del cuore. I capelli sono appiccicosi e comprende di essere ferita. Ora ricorda: un colpo forte, fulmineo, sferrato da destra. Si sforza di richiamare alla mente quanto è accaduto, ma non ci riesce. Ha un vuoto di memoria.

Tocca la superficie su cui è sdraiata: un tessuto grezzo e pungente che emana uno sgradevole tanfo di umidità. Cerca di percepire qualche rumore, ma il silenzio intorno a lei è quasi totale. L’unico suono è l’eco di uno sgocciolio d’acqua, continuo e lontano.

Con la forza delle braccia, a fatica, dolorante in diverse parti del corpo, riesce a mettersi in posizione seduta. Allunga un piede per saggiare il terreno: si accorge che non si tratta di un pavimento, bensì di ghiaia.

Osserva lo spazio buio che la circonda e intravede una debole striscia di luce verticale provenire da un punto a qualche passo da lei. Vorrebbe alzarsi in piedi, ma un violento dolore alla testa la fa desistere. Rimane immobile. Tira profondi respiri, cercando di riprendersi e di alleviare il forte dolore.

Dopo qualche minuto, riesce finalmente ad alzarsi in piedi. Allunga le braccia per tastare la superficie più vicina: roccia umida! Con una certa inquietudine comprende di essere prigioniera in una caverna.

Avanza adagio nel buio impenetrabile, sempre mantenendo il contatto con la parete, per avvicinarsi al flebile raggio luminoso davanti a sé. Quando è vicina, intuisce di essere di fronte a una solida porta di assi di legno. Uno spazio di un paio di centimetri fra due di essi lascia filtrare una luce fioca.

Accosta un occhio alla fessura. Individua un tunnel con due binari paralleli al centro, scarsamente illuminato da un fascio di luce proveniente da sinistra: l’uscita. Realizza all’istante di essere stata rinchiusa in una delle antiche miniere di smeriglio, fra le montagne che circondano il villaggio di Kòronos. Lei conosce molto bene Naxos, ha condotto sovente le sue ricerche in queste zone remote all’interno dell’isola. È consapevole che non ha alcun senso gridare o chiedere aiuto: lì nessuno potrebbe mai sentirla.

Fruga nelle ampie tasche delle bermuda nel caso le abbiano lasciato qualche oggetto, ma sono vuote. Non trova più né il cellulare, né il portafoglio, né gli occhiali, ma solo alcuni fazzoletti di carta.

D’improvviso si ricorda di una minuscola torcia per i casi di emergenza, quelle che fungono anche da portachiavi: l’aveva infilata in una piccola tasca interna dei pantaloni, posta all’altezza della vita. La estrae e l’accende per esplorare il luogo in cui è imprigionata.

Oltre alla massiccia porta e al giaciglio maleodorante su cui s’è svegliata, nota delle piccole casse accatastate con cura, l’una sull’altra, in una cavità della grotta. Si avvicina piano, illuminandole con la torcia, ma non riesce a cogliere alcuna indicazione sul loro contenuto.

L’unico indizio sono dei fili di paglia che fuoriescono tra le fessure dei listelli di legno.