di Danilo Arona
Circa quattro anni fa, quando la numerazione della rubrica segnava più o meno la metà di quella attuale, lo tsunami dei ricordi mi concesse una lunga rievocazione (a puntate) dei luoghi di ritrovo che furono significativi, per me e per molti altri, in certi decenni del secolo scorso. Per una sorta di rispettoso pudore che tenterò anche di spiegare, ne sfiorai uno, importante di sicuro, di cui non riportai la denominazione. Intanto perché, a differenza di tutti gli altri (Perù, Pierini, Napoleon di Spinetta, Baleta), questo esiste ancora con lo stesso nome di allora, e un certo costume giornalistico imporrebbe di citarlo indirettamente, facendo più o meno capire quale sia l’oggetto del discorso. Non entro nel merito, ma tant’è. Di certo, parlando di eventi e luoghi degli anni ’60, penso proprio che non esistano possibilità di ricadute sul locale attuale. Peraltro le mie memorie sono caratterizzate da irriducibile nostalgia, che non è certo elemento di sfavore.
Chiuso il burocratico ma doveroso pistolotto, devo tornare a quel momento di metà anni ’60, quando la “compagnia” del Bar Perù di Viale Medaglie d’Oro si spostò tutta quanta all’improvviso in un altro locale, appena ampliato e ristrutturato, dall’altra parte di piazza Mentana. Di sicuro quel bar (quello che appunto non nomino), in stile chiosco molto ampio con diverse postazioni esterne di tavolini, ci appariva innegabilmente più bello e più accogliente dell’angusto Perù. E quella compagnia, le cui fila s’ingrossavano a vista d’occhio anche per la promiscuità con l’altra metà del cielo (che iniziava, in vista del ’68, a rompere secolari tabù), era proprio “tanta”, in grado di caratterizzare con la sua presenza l’andamento del locale. Io ero il più giovane della combriccola e, forse perché dimostravo qualcosa di più, ero “tollerato”.
In ogni caso nel nuovo covo, oltre allo spazio vitale, ci stavano: il jukebox, l’immancabile televisione, buonissimi gelati artigianali, i padroni che non erano affatto tipi comuni (Graziano, Amalia e la figlia Ornella), angoli verdi tutt’attorno e punti strategici di osservazione per “lumare le banotte” di passaggio, sempre in bici e gonne al vento nella bella stagione. Piazza Mentana, perimetro naturale, poi era proprio graziosa e ben tenuta. Insomma, un bel pezzo di Alessandria.
Io di quel periodo, non potrebbe essere altrimenti, ricordo soprattutto la musica. Il pezzo più gettonato nella macchina musicale era The Rise and Fall of Flingel Bunt degli Shadows che passava più volte al giorno. Il sottolinearlo è un notevole indizio. Sicuro, esisteva di già sullo sfondo la dicotomia Beatles vs Rolling Stones, ma la prevalenza dei “vecchi” nella compagnia (grosso modo quelli nati nella seconda metà degli anni ’40) cassava senza pietà la nuova ondata della british invasion: per loro la musica arrivava giustappunto agli Shadows, Duane Eddy, Elvis e gli Isley Brothers. Ma è normale. Anche nelle sette note le resistenze al “nuovo” sono sempre state una regola. In qualsiasi epoca. Però ogni tanto, tra Stones che sgomitavano con The Last Time e i Beatles di Ticket To Ride, faceva sovente capolino Stand by Me di Ben E. King, uscita qualche anno prima, nel ’61, e “coverizzata” l’anno seguente da Celentano con un testo in italiano un po’ imbarazzante e che non c’entrava una mazza con le parole originali.
E ci sta una digressione (che però è pertinente): già allora Stand by Me, pubblicata nel ’61, dimostrava di essere un pezzo senza tempo e paradossalmente incentrato proprio sul tempo che passa inesorabile. Le parole originali, ovviamente riferite a una dichiarazione amorosa, ostentano pure una sottotraccia a dir poco tenebrosa, e non è un caso che un altro King, Stephen, le abbia citate più volte nei suoi romanzi:
«Quando è arrivata la notte, e la terra è oscura, e la luna è l’unica luce che vedremo, stai con me», e più in là, «Se il cielo che guardiamo dovesse cadere o le montagne sgretolarsi, tu stammi vicino». Chiaro, no? Un raro esempio di perfetta sintesi fra parole e musica. E che il pezzo sia in grado di sfidare il tempo lo ha dimostrato pure il film di Rob Reiner del 1986, intitolato appunto Stand by Me, in cui una canzone del ’61 commenta una vicenda che si ambienta nel ’59. Ma non è un errore. Se vogliamo cavillare, è un titolo extradiegetico.
Tornando al “baretto (tutt’altro che piccolo), ricordo una serie di rituali tipici di quel periodo storico. Il più strano, dal mio punto di vista di sedicenne, era il ritrovarsi alla domenica in rigorosa “tappa” festiva per l’aperitivo, liturgia che non potevo apprezzare data l’età. Era il momento più affollato dal punto di vista transgenerazionale in cui giovani e anziani discutevano animosamente di musica, politica e soprattutto di calcio, con punte sonore quanto mai rumorose. Ovvio che non si poteva trascendere in epiteti volgari e soprattutto non si poteva questionare di gnocca perché dietro il banco lavoravano la moglie del titolare, una bella signora dai capelli biondi, e la sua carinissima figlia, la già citata Ornella. Insomma, era una compagnia che si dava un certo contegno, al di là delle leggende sulle “bande” degli anni ’60 mitizzate al cinema da Coppola.
Le usanze domenicali comprendevano ancora le feste in soffitta dallo Smilzo (piazza Garibaldi), festicciole all’aperto ai fortini oltre via Tonso con mangiadischi al seguito, ma spesso anche il pigro nulla delle giornate d’estate, ricche di malinconico fascino e di lunghi silenzi. Nella mia memoria associo quel bar a un momento di transito esistenziale. Stavo per cambiare vita, quartiere e forse compagnia, perché la mia famiglia da lì a poco avrebbe traslocato all’altro capo della città, io avrei cominciato a frequentare il Plana e incredibilmente, data la giovane età, avrei preso a suonare in giro con un minimo di regolarità e l’ovvia contrarietà di mia madre (papà no, faceva il tifo).
Ci sono immagini, almeno per me, che si rubano al cinema e alla musica per commentare un particolare momento della vita. Un ragazzino, agli occhi degli altri un po’ strano sempre per la già menzionata differenza d’età, troppo timido tranne quando imbracciava una chitarra, che cercava il suo posto nel mondo e che “lumava”, facendo il possibile per non farsi cogliere in castagna, le coetanee che gli acceleravano il battito cardiaco, Ornella compresa. Stava su una sedia, fuori nel dehors, e quelli accanto a lui parlavano del nulla, e nell’aria in piazza Mentana da una radio invisibile fluttuavano le note di Stand by Me.
Mezzo secolo dopo Stand by Me vaga ancora per il pianeta, al punto da essere usata come inno d’amore in adattamento gospel durante il Royal Wedding lo scorso maggio tra Meghan e Harry (recuperatelo su YouTube, è una versione formidabile).
Anche il “baretto” è ancora qui, cioè lì.
Ma noi non ci siamo più.
Si chiama Bad Time Running che possiamo tradurre in diversi modi. Ma il tempo che corre via è sempre cattivo.