di Beppe Giuliano
Racconti dell’età del jazz (2)
Lo starter della grande corsa domenica 4 marzo 1928 a Los Angeles fu Red Grange, il giocatore di football americano che aveva ottenuto un ricco contratto professionistico proprio grazie a C.C. Pyle, in un’era in cui “il grande passatempo americano” era il baseball mentre il football era un gioco poco seguito, e sarebbero passati decenni prima che i gusti del pubblico si invertissero.
In un libro che è una specie di Bibbia sulla Route 66 l’autore Michael Wallis descrive i partecipanti: “Erano venuti dagli Stati Uniti e da molte nazioni straniere. Molti erano veri levrieri, corridori delle lunghe distanze che avevano già vinto importanti maratone. Altri erano decisamente più pittoreschi, c’era chi indossava i “boots” (tipici stivali dei cowboys) chi mocassini indiani. Qualcuno correva scalzo. Un iscritto era un anziano che andava col bastone, un altro partì suonando il suo ukulele. Un attore di Hollywood disoccupato si presentò indossando una lunga tunica presa dal set di un film biblico” (in effetti in quel momento spopolava ‘Il re dei re’ diretto da Cecil B. DeMille).
Tra i partenti c’erano anche diversi italiani, come racconterà La Stampa che dal mese di aprile prese a seguire la “supermaratona” come la definì il giornale, soprattutto con attenzione a quelli che “correvano portando i colori nazionali”, oltre al triestino Umek pure diversi italiani d’oltre Oceano, per esempio il paisà della Pennsylvania Norman Codeluppi, e d’oltremanica.
Il triestino Giusto Umek era presentato all’epoca dagli organizzatori come grande maratoneta, ma era in realtà un marciatore, aveva infatti vinto ben due volte la mitica 100 chilometri di marcia organizzata dalla Gazzetta dello Sport, dove rivaleggiava col milanese Donato Pavesi, il fuoriclasse dell’epoca. Proprio per la sua partecipazione alla manifestazione del 1928, e alla seconda edizione dell’anno successivo su cui torneremo, per cui ottenne una sponsorizzazione della Fernet Branca, fu considerato professionista e radiato dalla Federazione di atletica.
L’italiano d’oltremanica era Peter Gavuzzi, nato a Southampton, già stewart sul Majestic la nave gemella del Titanic, già fantino, “un ragazzo piccolo di statura, vivace e ambizioso, vuole viaggiare e vedere il mondo”. Originario dell’albese, figlio e nipote di cuochi, suo padre Bartolomeo si occupava dei banchetti alla Corte d’Inghilterra (sua madre era invece una cameriera francese). Come vedremo, sarà uno di quelli che si giocheranno la vittoria della corsa.
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Lo stesso 4 marzo del ‘28, una domenica, mentre in California partono i nostri corridori diretti a New York allo stadio degli Orti l’Alessandria batte con un netto 4-0 il Genoa. Le tribune costano 20 lire, ci dice Il Piccolo, i parterre 12, popolari 7, dopolavoro 6, militari e ragazzi 5.
La linea d’attacco in quella partita è Avalle, Libero, Banchero, Ferrari, Chierico.
Giovanni Ferrari, che vincerà due campionati del mondo nel ‘34 e nel ‘38, in quella stagione segna 24 gol in 32 partite. Il ragazzo della Canarola ha finora sempre vestito la maglia grigia tranne una parentesi di un anno a Napoli al seguito dell’allenatore della squadra, Carlo Carcano, che lo aveva scoperto quando era a pensione proprio dalla famiglia Ferrari.
Storia interessante e crudele quella di Carcano. Varesino, più di cento presenze in maglia grigia tra il 1913 e il 1924 (e primo dei nostri calciatori a vestire la maglia azzurra), allenatore geniale, lasciati i grigi nel 1930 andò alla Juventus a vincere quattro dei cinque scudetti consecutivi della prima metà degli anni trenta, per poi scomparire: «Carlo Carcano ha lasciato in questi giorni la carica di allenatore della Juventus» scrive laconico il giornale di proprietà della famiglia Agnelli.
Nessun motivo ufficiale, e solo molti decenni dopo si sussurrerà di attenzioni sconvenienti riservate nello spogliatoio bianconero ai giovani, soprattutto al centravanti “Farfallino” Borel, da diversi soggetti tra cui l’allenatore stesso e addirittura il rude italo-argentino Luis Monti, spaccaossa come pochi in campo.
La pagò Carcano con la fine della carriera, e il silenzio calato su di lui.
Scrive Enrico Brizzi, l’autore del grande successo generazionale ‘Jack Frusciante è uscito dal gruppo’ e ora di (ottimi) volumi sul calcio che fu: “La direzione nella quale indagare, si suggerì, era quella delle preferenze sessuali del mister. Non l’avevano notato, come era attento alla forma e all’eleganza? Con quale vezzo, già arrivato alla mezz’età, indossava ancora il suo giacchetto di daino?”
Il primo giornalista a raccontare la vicenda fu peraltro negli anni ottanta Gianni Brera: «Di esteti pedatori ne ricordo uno, Carcano, centromediano milanese dell’Alessandria. In pensione presso la famiglia Ferrari, allevò Gionnin e lo volle con sé in Juventus. Ebbe seri fastidi quando scoppiò lo scandalo intorno a Farfallino Borel, denunciato per gelosia da un consigliere ‘nu poco ricchione. La cosa più divertente di quella Juventus fu la scoperta dei vizi montiani. Il mio amico Ippolito, centravanti della rappresentativa torinese (io ero centromediano di quella milanese), mi riferì d’un goffo litigio fra Monti e Varglien I, due gagliarde checche, a suo dire».
Nell’Italia dell’epoca però i gay non esistevano, lo sancì addirittura una commissione ministeriale abolendo l’articolo del codice penale (“La previsione di questo reato non è affatto necessaria, perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore”).
Desta perciò discreto stupore un trafiletto delle pagine del nostro giornale locale in cui si legge di due uomini, di 36 e 35 anni (ometto i nomi che invece il giornale riporta, nel ‘28 non c’era ancora la norma sulla privacy) che “trovati in attitudine sospetta di notte sono stati arrestati, al Cristo”.
Carlo Carcano si ritirò con discrezione in riviera, a Sanremo, dove morì a metà degli anni sessanta, ricordato a pagina 8 della Stampa solo da un trafiletto che chiudeva l’articolo sulla Juventus sconfitta nella finale di Coppa delle Fiere dal Ferencvaros, mentre ancora oggi il sito della squadra parla per lui di “dimissioni”.
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Come gli altri partecipanti alla “corsa del bugnone” il “nostro” albese di Southampton Peter Gavuzzi era a Los Angeles già da metà febbraio perché C.C. Pyle aveva organizzato un campo di allenamento all’autodromo di Ascot che prevedeva la sveglia alle sei del mattino, dopo la colazione a base di uova, cereali, pane tostato e frutta una corsa tra le 25 e le 40 miglia, pranzo a mezzogiorno (zuppa, insalata, carne arrostita o bollita, verdure cotte e crude, dessert, tutto il latte caffè e tè desiderati, prometteva il programma) altro allenamento, cena alle sei e coprifuoco alle nove.
Pyle, che come detto lucrava su tutto, fece pagare a ognuno 50 cent per il posto letto e altrettanto per ogni pasto.
Gli sponsor avevano detto al piccolo ragazzo originario di Monticello d’Alba di preoccuparsi di vincere gli sprint previsti ogni giorno e che assegnavano diversi premi, in realtà molto spesso mai consegnati, ma quando il suo compagno di team si ritirò gli chiesero invece di gareggiare per la vittoria finale. Gavuzzi superò parecchie peripezie, compresa l’avventurosa traversata del fiume Colorado su canoe indiane che scaricarono quasi tutti i corridori ben distanti dal punto previsto, in una zona dove, nonostante lui si fosse arrampicato su un albero, non si potevano vedere altro che alberi e vegetazione, nessunissima strada. Lasciata la California diretti a est, Gavuzzi era nel gruppo di testa con un paio di finlandesi, Willie Kohlemainen (il favorito, fratello del vincitore della maratona alle Olimpiadi del 1920) e Olli Wanttinen, con Arthur Newton, altro britannico (nativo della Rhodesia) che deteneva ogni record di corsa tra le 30 e le 100 miglia, e con il giovanissimo Cherokee Andy Payne, alla prima competizione di questo tipo.
(segue)
La prima parte: https://mag.corriereal.info/wordpress/2019/05/27/la-corsa-del-bugnone-lettera-32/