di Dario B. Caruso
Mio nonno materno – classe 1908 – era un uomo del suo tempo.
Pratico, silenzioso, essenziale nei fatti come nelle parole.
Fumò la prima sigaretta all’età di 8 anni.
Allora fumare era un atto di poesia.
Lavorava nei campi, lui, per l’intera giornata.
Le sigarette erano una pausa, due al giorno, in quel quarto d’ora in cui ci si fermava sotto un castagno per fare il punto della situazione, col sudore che si asciugava addosso.
Anche in quei momenti era silenzio, solo lo sbuffo, le volute del fumo e frasi essenziali.
In quel modo la giornata e il lavoro andavano avanti a ritmo serrato e produttivo.
Oggi non è più così.
È vero, è passato un secolo quindi inevitabilmente i tempi e le persone sono cambiati.
Abbiamo sigarette vere e sigarette elettroniche, è un vizio, un assillo una dipendenza, una dietro l’altra.
La poesia resta nelle mani di pochi che rollano pazientemente due tre quattro volte al giorno e gustano sapientemente il tabacco.
E affoghiamo nelle parole, parliamo parliamo parliamo.
Nella migliore delle ipotesi ascoltiamo ascoltiamo ascoltiamo molto seguendo il filo.
Spesso ascoltiamo senza capire, inebetiti dal ritmo delle parole ed incapaci di comprendere il senso del discorso.
Un po’ come un brano di musica trap, dopo tre minuti non ti è rimasto nulla e non ti resta altro che continuare ad ascoltare inutili sequenze ossessive e offensive.
E tu lì, senza capire ma affogato nelle parole.
Mio nonno morì nel 1990, al termine dell’estate, dopo i Mondiali di calcio che seguì con il distacco giusto di chi sapeva che il novantesimo sarebbe arrivato a breve; tra i due tempi gli suonavo la Mazurka Chôro di Villa Lobos, l’unico brano che ascoltava fino alla fine senza alzarsi per andare in bagno.
Di lui mi piacerebbe recuperare l’essenzialità, quel gusto del poco che riempie la vita.
Moriremo tutti di un cancro sconosciuto che ci porterà via, moriremo per eccesso di tutto e mancanza di spazio.
Provo a recuperare ciò che conta.
L’idea di una sigaretta nel silenzio, sotto un castagno.