di Beppe Giuliano
Un altro 4-1 al Bernabeu
«Giocavamo all’ombra del Milan. E loro ci esclusero di fatto dalla partita», il racconto è di Barry Hulshoff, lo stopper – se vogliamo citare il ruolo come si usava allora, con una terminologia valida per tutte le squadre fino… all’avvento dell’Ajax – cappellone e barbuto che spaventava i pochi avversari che osavano attaccarli. «Certo, essere arrivati in finale ci riempiva di orgoglio… Dicono che a volte si debba perdere una finale per vincerne una, ed è vero. Più avanti imparammo che se per noi non si metteva bene, potevamo cambiare nel corso della partita… cambiare tattica intendo. Contro il Milan non potevamo cambiare nulla. Erano troppo esperti. Fummo sopraffatti, su ogni fronte. Su ogni fronte, loro erano migliori». (La testimonianza sta nel libro di David Winner ‘Brilliant Orange: il genio nevrotico del calcio olandese’)
Già, la storia del grande Ajax per molti di noi italiani iniziò proprio al Bernabeu, con un altro 4-1, non la grande vittoria della scorsa settimana contro il Real Madrid, ma la disfatta nella finale del 1969 contro il Milan di Rivera, del Trap che annullò un giovane Cruijff, di Pierino Prati che ne segnò tre, del paròn Rocco.
Curioso che anche la peggiore sconfitta del leggendario Johan da allenatore sia arrivata contro il Milan, il 4-0 della finale con il Barcellona in cui a fare il Cruijff per una sera fu Savicevic.
Prima di quel 4-1 al Bernabeu, in realtà, c’era già stato un altro stadio di quelli mitici del fùtbol nella costruzione dell’epica “ajacide”.
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Ad Anfield vinceremo 7-0, e potete crederci.
Lo disse Bill Shankly, il leggendario manager dei Reds, tra la partita di andata e quella di ritorno, altra Coppa Campioni, anno 1966.
L’andata rimane nella leggenda anche se non la vide quasi nessuno, non solo perché allora non avevamo la trasmissione televisiva di tutte le partite.
Allora “nessuno in Inghilterra aveva mai sentito parlare dell’Ajax e si pensava che la partita sarebbe stata una passeggiata per gli uomini di Shankly. Il Liverpool indossò le solite casacche rosse; l’Ajax, la cui seconda divisa prevedeva magliette o pantaloncini blu, giocò per la prima e unica volta nella sua storia completamente in bianco.”
Si giocò allo stadio Olimpico di Amsterdam in una nebbia che non avrebbe sfigurato neppure nell’Inghilterra dell’epoca.
Un episodio resta nella mitologia: “Dopo circa quarantacinque minuti di gioco, Sjaak Swart sentì fischiare l’arbitro, immaginò fosse la fine del primo tempo, e corse nel tunnel degli spogliatoi lì vicino alla linea laterale. «Che stai facendo?», gli chiese uno steward. «La partita è ancora in corso». Swart tornò in campo, ricevette subito palla, volò sulla fascia e crossò, fornendo l’assist per il quarto gol.”
L’incontro terminò 5 a 1 per l’Ajax e, nonostante la sicurezza di Shankly, ad Anfield finì 2-2 e per i “lancieri” segnò due volte un ragazzino magro, con i capelli già un po’ più lunghi del solito, i piedi un po’ piatti. Sì, quello che ancora adesso è sinonimo universale dell’Ajax, del calcio olandese, della maglia numero 14.
Dopo la partita Shankly andò negli spogliatoi per congratularsi della splendida prestazione. E per gli otto anni successivi avemmo il grande Ajax, scrive Simon Kuper in ‘Ajax, la squadra del ghetto’ (il libro, bellissimo, non si limita a esaminare i legami tra la squadra, la comunità ebraica di Amsterdam e lo stato di Israele. Racconta anche “storie di collaborazionismo e persecuzione” e tanto altro).
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Prima del numero 14
E prima di Rinus Michels, l’allenatore che pochi mesi dopo quella sconfitta al Bernabeu dismise il 4-2-4 per passare a quel 4-3-3 che è tuttora la base del calcio “totale” orange, c’era “una tradizione di calcio offensivo e ragionato che risaliva alla prima guerra mondiale, attribuita all’inglese Jack Reynolds –o Sjek Reynolds, come lo chiamano gli olandesi. Reynolds aveva cominciato la sua modesta carriera di giocatore nel 1902, come riserva del Manchester City, per poi finire al Grimsby Town, allo Sheffield Wednesday e al Watford, prima di allenare il Grasshoppers di Zurigo e la nazionale svizzera. Nell’agosto del 1914 avrebbe dovuto subentrare come allenatore della nazionale tedesca, ma poi scoppiò la guerra, così cercò riparo nella più sicura Olanda. Lì allenò l’Ajax per venticinque anni in tre diversi mandati tra il 1915 e il 1947. La tradizione della squadra, di un calcio offensivo, tecnico, fatto di passaggi veloci e concentrato sulle ali, cominciò con la gouden ploeg (« squadra d’oro») costruita da Reynolds attorno al lunatico genio Jan de Natris.” (Ancora David Winner)
Proprio Rinus Michels giocò sotto la gestione Reynolds alla fine degli anni quaranta.
E dopo Reynolds venne un altro inglese, Vic Buckingham, che oltre a iniziare la costruzione della squadra nei primi anni sessanta, sarà poi il primo a passare dall’Ajax al Barcellona, aprendo la strada che ha creato la più grande delle rivoluzioni del “giuoco” – come ancora sta scritto nel nome della federazione e come ancora dice un famosissimo ex-presidente della squadra milanese già diverse volte citate.
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Cruijff è migliore, ma Keizer è il migliore
La frase si deve a un giornalista olandese. Kuper aggiunge: “I componenti della famosa linea d’attacco, Keizer, Cruijff e Swart, erano cresciuti a meno di due chilometri dal campo, e i genitori di Keizer e Cruijff erano usciti insieme, prima di scegliere i relativi consorti, il che suggerisce affascinanti trasformazioni mai realizzate.”
Una storia niente male la raccontò Velibor Vasović.
“A Parigi, nel maggio del 1966, – scrive David Winner – Michels aveva visto il Real Madrid battere il Partizan per 2 a 1 nella finale di Coppa dei Campioni; Vasović aveva segnato l’unico gol della propria squadra. I suoi genitori erano stati partigiani durante la guerra e Vasović era un uomo navigato, Michels sperava di poterlo impiegare come… Louis van Gaal avrebbe fatto con Frank Rijkaard all’Ajax: un veterano agguerrito e un avversario stimolante capace di insegnare ai giovani una o due cose su come si vincono le partite di calcio.”
«Mr. Michels mi aveva contattato tramite la moglie jugoslava di un olandese di nome Adres Blankert. Andai ad Amsterdam nell’ottobre del 1966 per discutere la cosa. Non mi offrirono molti soldi – non ero soddisfatto, ma non potevo andare in nessun altro club in Europa perché solo in Olanda c’era un breve periodo di mercato a dicembre, perciò firmai un contratto per metà della somma che avevo chiesto». Vasović assistette alla partita in casa dell’Ajax contro il PSV insieme al presidente Jaap van Praag. «Ero davvero sorpreso. Johan Cruijff giocava sulla fascia sinistra ma questa donna jugoslava mi aveva detto di non far caso a quel ragazzino poiché la fascia sinistra era la posizione del miglior giocatore della squadra, Piet Keizer. Dopo la partita le dissi: “Puoi anche dire al presidente che se hanno qualcuno che è meglio di questo giocatore, io non gli servo”».
Proprio con l’addio di Johan che andò a Barcellona, per soldi ma anche perché gli avevano tolto la fascia da capitano (niente a che vedere con un’altra storia attuale, però) il grande Ajax iniziò a sfaldarsi, il che ormai si ripete come una specie di maledizione ogni anno, con i migliori talenti venduti, e ugualmente la squadra di Amsterdam resta assolutamente unica, e proprio non si può non amarla.
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