Venerdì sera alle ore 21 presso la sede dell’Associazione Culturale 10 Mondi, in via Fabio Filzi 7 ad Alessandria, lo scrittore Angelo Marenzana presenterà il suo nuovo romanzo Il delitto del fascista Nuvola Nera (Sergio Fanucci Editore), in libreria da fine febbraio.
L’autore dialogherà con il direttore di CorriereAl Ettore Grassano. Proiezione di cartoline d’epoca con Tony Frisina.
In anteprima, per i lettori di CorriereAl, un estratto del romanzo.
Da “Il delitto del fascista Nuvola Nera” di Angelo Marenzana
Giovedì 19 aprile
Egidio Visconti non era vecchio. Non aveva nemmeno raggiunto la soglia dei cinquant’anni e si presentava pure in buona salute. Eppure era morto lo stesso. Cuore spezzato. Non per cause naturali bensì per colpa di un oggetto acuminato noto solo all’assassino. Movente? L’odio nutrito nei suoi confronti da parte di una banda di comunisti degenerati, mormoravano i suoi pochi amici.
Nessuno degli operai della vetreria si era degnato di presenziare alle esequie per un ultimo saluto. E neppure le rappresentanze di partito e del potere locale, più propense a non esporsi troppo. Un modo per disconoscere ogni legame con Visconti. Un uomo con le palle d’acciaio, si era detto fino a qualche mese prima, per via della camicia nera, dell’aria tronfia e del ghigno spavaldo. Ma il vento era cambiato. E più nessuno si azzardava ad accodarsi a un simile giudizio. Così, alle esequie del camerata Visconti venne a mancare il calore e il rispetto dell’ufficialità.
Il cocchio era una macchia nera. Guidato da due cavalli altrettanto neri e con bardatura a lutto.
Maida e Todisco erano stati tra i primi a farsi vedere al cimitero, pur mantenendosi a debita distanza. Alle loro spalle l’ampia distesa dei bastioni. Oltre, nelle giornate più terse, era possibile veder scorrere il Tanaro e individuare il profilo della Cittadella militare. Una prima fioritura stemperava la soffusa atmosfera che aleggiava attorno al camposanto.
Stare affianco del cognato aveva fatto ritrovare a Maida il piacere di guardarsi attorno per rubare particolari, interpretare sfumature e gesti dei presenti. Piccole crepe collettive che nel passato gli permettevano di insinuarsi nella vita altrui, di decifrare debolezze o pensieri invisibili. Osservando la scena si era preso la briga di contare una trentina di persone, tutte in linea con la dottrina delle esequie. Gli uomini vestivano abiti scuri, con il cappello stretto in mano e il capo chino. Le donne portavano vele e e mazzi di fiori. Nulla appariva fuori luogo.
Nemmeno il commissario, dal volto più rilassato grazie ad alcune ore di sonno e con un abito nuovo, quello della domenica, che Martina aveva preteso di fargli indossare per relegare in un angolo nascosto la trascuratezza dei giorni precedenti.
La piccola processione passò sotto la cupola dalle nove campate a crociera che sovrastavano l’atrio del cimitero monumentale. Appena fermi, gli addetti alle pompe funebri fecero scivolare il feretro fuori dal cocchio. Subito dopo, la bara portata a spalle varcò l’ingresso del camposanto al seguito del parroco che recitava i passi della benedizione. Due chierichetti in tunica nera e cotta bianca con pizzo in organza sul fondo delle maniche si posizionarono ognuno per lato. Sventolavano i turiboli sparpagliando odore d’incenso. Anche Maida e cognato si mossero. Il corteo proseguì lentamente con il primo sole del mattino a scaldare la pelle.
Si fermarono nuovamente, ma solo quando raggiunsero il campo centrale ombreggiato dalla doppia fila di tuie e dalle cappelle delle famiglie più in vista. Una fossa era stata scavata di fresco. La guerra non si era spinta oltre a violare il luogo del sacro riposo eterno.
Maida smise di ascoltare il prete quando iniziò a leggere un brano in latino.
«La donna con i tre ragazzini è la moglie?» chiese indicando con la testa una signora tutta in nero. Indossava un cappotto di astrakan un po’ fuori stagione e forse un po’ troppo grande per lei. Nessun fronzolo e un pesante foulard a coprirle i capelli. Maida poté solo immaginarsela, e se la figurò come una donna tracagnotta, abbastanza anonima, senza charme. Una madre di famiglia sottomessa a una personalità autoritaria come quella del marito appena defunto.
I bimbi erano due gemelli, per mano alla donna. Il terzo, di spalle, più alto dei fratelli e anche della mamma e già con una struttura fisica sovrappeso che fin da lontano ricordava quella del padre.
«Credo di sì. Io non l’ho ancora conosciuta.»
«Indaghi sulla morte del marito e non conosci la moglie?»
«Il questore ha voluto occuparsi di persona della famiglia.»
A Maida non sfuggì nemmeno la presenza di una donna in piedi sotto il porticato delle cappelle. Guardava con insistenza il piccolo gruppo in lutto e cercava di mantenere l’aria di essere da quelle parti quasi per caso.
Maida si spostò per osservarla meglio. Seppure in controluce ne riconobbe il volto. Una persona nota in città. Quantomeno nell’ambiente maschile.
Toccò il braccio di Todisco:
«Guarda chi c’è.»
Todisco si concesse un sorriso ironico.
«La Perugina» disse dopo aver meglio considerato la persona.
«Proprio lei.»
Era la ben nota maîtresse della Casa Rossa. Registrata all’anagrafe con il nome di Severina Amici, l’unica della famiglia a essere sopravvissuta alla pandemia di influenza spagnola. Aveva perso tutti. Genitori e fratelli. Ma anche il fidanzato. E appena diciottenne si era ritrovata tutta sola ad affrontare la propria vita e a digerire il dramma del lutto. La campagna umbra si stava dimostrando sempre più impietosa per una donna senza risorse. Troppo povera per offrirle un futuro. Così aveva scelto di ribaltare con le gambe per aria ogni sua regola. Mentre ballava nella piazza di Scheggino con uno sconosciuto, sotto lo sguardo velenoso dei compaesani, la proposta le era arrivata all’ultimo giro. In un orecchio. Così aveva accettato di far parte di una compagnia di ballerine.
Era giovane e bella, sprecata per sopravvivere tra i monti inospitali della Valnerina e sperare solo di condividere il talamo nuziale con qualche pastore. Le grandi città erano a un tiro di schioppo. Le si offriva l’opportunità di girare tutta l’Italia e magari il mondo intero. Avrebbe potuto conoscere uomini di alto lignaggio e trovare il partito giusto, degno della sua bellezza e del suo fascino. Quel mondo immaginifico gliel’aveva scolpito pezzetto per pezzetto e servito su un piatto d’argento Livio, un tipo vestito con papillon e un vistoso abito a quadri gialli e marroni giunto a Scheggino con la sua compagnia di ballerine e comici. Calzava una bombetta in testa che si levava ogni volta che le rivolgeva la parola. Qualche giro di ballo, un paio di prove con le altre ragazze e mille complimenti. Il rituale di caccia dello sconosciuto andò avanti così per tre giorni. Fin quando, con un fagotto annodato ai quattro lati per riporre pochi ricordi, Severina salì sul torpedone che l’avrebbe accompagnata verso un mondo tutto nuovo. Il pianeta sconosciuto dello spettacolo con successi e lustrini scintillanti. Ma le bugie infiorettate e la gentilezza dello scopritore di nuovi talenti si smorzarono all’improvviso quando lui le disse che c’era un signore da accompagnare a cena e che avrebbe dovuto essere ben disponibile con lui. Se non voleva andare incontro a grane più grosse. Prima l’aveva colpita con uno schiaffo, poi convinta con le buone e con l’attrattiva di un adeguato compenso visto che il cliente avrebbe pagato più che profumatamente per trascorrere tutta una serata in sua compagnia fino a coglierne la verginità.
Perché Severina doveva essere vergine. Per non far fare al pappone in bombetta una pessima gura, visto che nell’ambiente aveva un nome da rispettare. Lui, non aveva mai tirato bidoni a nessuno. Alla fine dell’incontro non c’erano state lamentele da parte del cliente e Livio fu generoso come promesso. Nemmeno la ragazza ebbe di che lagnarsi per il trattamento. Ma soprattutto non ebbe nulla da recriminare a sé stessa. Forse quell’esperienza non era prevista nei suoi sogni, ma non era stata nemmeno una sorpresa. Era un modo rabbioso e isterico per non farsi travolgere dal dolore del lutto familiare e scordare il passato immergendosi in qualcosa di completamente nuovo. Ormai svezzata, doveva trovarsi un nome più consono al ruolo. ‘Perugina’ calzò subito a pennello. Era venuto in mente a lei, e le era subito parso un buon modo per ricordarsi sempre della terra dove era stata sepolta tutta la sua famiglia. Dopo il primo cliente ne seguirono altri. Il percorso era stato imboccato. E quella rimase l’unica strada perlustrata in vita sua. E sempre a testa alta. E fu questo suo orgoglio a sostenerla di bordello in bordello. Si era dimostrata una donna sempre affabile, disponibile e fascinosa. Fin quando la sua nomea e alcune amicizie giuste non le permisero di poter avere un bordello tutto suo da gestire. Gli anni passavano e la merce da vendere incominciava a perdere valore. Meglio pensare al futuro trovando una diversa posizione.
I due uomini le si avvicinarono, e Maida non poté fare a meno di apprezzare la fragranza di violetta. La donna indossava un abito nero chiuso al collo da una rosa in pizzo in tinta. Una veletta altrettanto nera raccoglieva una folta capigliatura. Nell’insieme, la veste accentuava la sua sensualità e il taglio all’insù degli occhi verdi. Ai piedi calzava un paio di stivaletti stringati alti fino al polpaccio.