di Dario B. Caruso
Ci sono scelte che si fanno e vanno portate fino in fondo.
È una questione di coerenza, di pratica, qualche volta di abitudine.
Il Festival di Sanremo è una scelta che feci negli anni Settanta: possiamo condividerne o meno le modalità e la qualità, possiamo apprezzarne o meno le canzoni e gli ospiti, possiamo seguirlo integralmente o a spizzichi e bocconi ma non possiamo fingere che non esista. Sarebbe come trovarci in pieno centro città ed assistere al passaggio di una mandria multiforme e multicolore, giraffe, ippopotami, elefanti, gazzelle, zebre e cammelli. Come non notarli?
Da molti anni a scuola scelgo di non parlarne ai ragazzi, attendo che siano loro ad intavolare – se lo ritengono – l’argomento.
Lo trovo un gesto doveroso, non mi piace farmi sopraffare nelle scelte dai media e soprattutto preferisco distanziare i ragazzi già assuefatti da essi.
Nelle ultime edizioni i giovani sono rimasti coinvolti dallo scimmione danzante di gabbaniana memoria oppure dalla vecchina snodata che piroetta al suono di uno stato sociale.
Quest’anno è stato diverso.
Hanno (anzi abbiamo) visto sfilare davvero numerosi dei loro beniamini, hanno (abbiamo) ascoltato generi sovrapposti – talvolta confusi – ma variegati, hanno (abbiamo) assistito a colpi di genio e crolli verticali.
Dall’alto della mia beata ignoranza ho percepito chiaramente che molti artisti della vecchia guardia non sono più in grado (e con buona ragione) di reggere una canzone dal vivo.
Venditti e Patty Pravo sono inascoltabili, sarebbe meglio incensarli con minor energia ed accompagnarli verso una dignitosa conclusione di carriera, come meritano.
Ho sentito morire la voce di Arisa sotto le note di una brutta canzone il cui inciso ricalca “Dio è morto” di Guccini, lei di solito pulita ed impeccabile ma resa finalmente umana da una laringite o forse semplicemente da uno stress eccessivo delle corde vocali.
Dall’alto della mia beata ignoranza ho apprezzato le nuove leve della nuova musica, Irama che attinge dal soul, Motta che pesca nella canzone d’autore. E ho ascoltato con piacere i racconti poetici, talvolta nostalgici, di cantanti affermati, Cristicchi che tocca il cuore, Negrita che suonano d’antico.
Soprattutto però dall’alto della mia beata ignoranza ho capito che hanno vinto in molti.
Ha vinto un ragazzo giovane con una voce che piace ai giovani ed un testo scomodo come piace ai giovani.
Hanno vinto quelli che credono nell’integrazione culturale perché un italiano figlio di immigrati rappresenterà l’Italia al prossimo Eurofestival.
Hanno vinto quelli che non credono all’integrazione culturale perché possono gridare al complotto e nei prossimi mesi avranno terreno fertile sui social e nelle strade.
Ha vinto il secondo classificato perché a dispetto del nome (Ultimo) ha di fatto quasi concretizzato le Sacre Scritture.
Ha vinto Loredana Berté, acclamata dalla platea del Teatro Ariston quale vincitrice morale della rassegna 2019.
Ha vinto Claudio Baglioni realizzando un’edizione innovativa.
Ha vinto il pubblico a casa, la sala stampa e la giuria di qualità.
Ha vinto Sanremo e la Liguria tutta, ospiti di questa mandria multiforme e multicolore fatta di giraffe, ippopotami, leoni, elefanti, tigri e gazzelle.
Ho vinto anche io dall’alto della mia beata ignoranza, che ogni anno ricerco la voglia di Festival e tutto il contorno della beata ignoranza altrui.