di Beppe Giuliano
Il parere, autorevole, lo ha dato l’australiano Rod Laver, l’ultimo degli uomini a riuscirci giusto cinquant’anni fa, intervistato dopo l’Australian Open: «Penso che finirà la sua carriera con più titoli Slam di tutti gli altri – ha detto riferendosi a Novak Djokovic. Non credo infatti che Roger possa vincerne molti altri, a parte ovviamente Wimbledon, sulla sua superficie preferita, mentre Nadal ha davanti a sé ancora qualche anno in cui sarà competitivo, ma il suo gioco mette a dura prova il fisico. Il Grande Slam? Prima o dopo qualcuno ci riuscirà, servono condizione atletica e disciplina e Djokovic possiede entrambe, anche se ammetto che rispetto ai miei tempi la concorrenza è più feroce».
Il giudizio sulla concorrenza viene dal più autorevole degli interlocutori, quindi non oso contestarlo. Certo, se guardiamo i numeri ci dicono qualcosa di diverso: i più forti di quest’epoca sono anche i vincitori di più tornei del Grande Slam di sempre, la “concorrenza feroce” è tra tre soli giocatori, gli unici a tentare di intromettersi nell’ultimo decennio, lo svizzero Wawrinka e Andy Murray, sono ormai entrambi fuori gioco.
I tre sommano 52 titoli complessivi: Federer 20, Nadal 17, Djokovic 15 e destinato a crescere più degli altri.
Tra i giocatori che hanno incrociato Rod Laver, che ne ha vinti 11 nonostante il buco di carriera degli anni in cui i professionisti erano esclusi dalle gare dei “dilettanti”, spicca Roy Emerson a 12 soprattutto perché di quel buco beneficiò, poi scendiamo agli 8 di Ken Rosewall che invece fu il più punito dal passaggio ai pro nella sua longeva carriera (arrivò in finale a Wimbledon in un intervallo di ben vent’anni) e ai 7 di “baffo” John Newcombe. Tra l’altro, se adesso la concorrenza è “più feroce” come dice Laver, all’epoca la concorrenza tra australiani (lo sono tutti e quattro i campioni citati) era al top.
Ah, ricordo per chi segue il tennis solo distrattamente, che si parla di Grande Slam quando nello stesso anno un giocatore vince l’Australian Open che si gioca dal 1905, salvo rare eccezioni a gennaio e non più sull’erba dal 1988, gli Internazionali di Francia del Roland Garros (la esse si pronuncia perché l’aviatore morto nella prima guerra mondiale era di origine spagnola), sulla terra rossa e la prima edizione è del 1891 anche se stanno nelle statistiche del Grande Slam dal 1925, Wimbledon che si gioca dal 1877 e gli Open degli Stati Uniti, prima edizione 1881, un tempo a Forest Hills ora nei sobborghi di New York a Flushing Meadows, erba abbandonata nel 1974.
Quando l’ultimo tennista riuscì a vincere i quattro tornei nello stesso anno, giusto cinquant’anni fa, tre si giocavano sull’erba dunque.
Ricordo inoltre che fino al 1968 ne erano esclusi i campioni che sceglievano di giocare nel circuito dei professionisti.
Laver ad esempio fece il Grande Slam nel 1962, passò tra i pro alla fine della stagione, e tornò sull’erba londinese solo nel 1967 per un evento unico, la sola edizione del “Wimbledon Pro” con appena 8 giocatori (il tabellone del torneo “vero” ne comprende 132 e si gioca al meglio dei 5 set non dei 3). Vinse in finale proprio contro Ken Rosewall. L’anno dopo, finalmente, le sacre porte dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club si riaprirono per tutti. E vinse di nuovo Rod Laver, battendo Tony Roche che era, insieme anche al suo socio di doppio Newcombe, uno degli “handsome eight”, altro circuito pro dell’epoca (cui si deve, tra l’altro, la nascita del tie-break per terminare i set in equilibrio).
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“Era un piccolo cowboy, ma non veniva dal Texas. Il suo paese era più lontano, più duro e più brullo del Texas: bambino, andava ad appostare i canguri, con gli amici. I Laver erano originari di un posto chiamato Gipsland, nel Victoria, e Gipsy vuol dire zingaro. La nonna Alice, nel 1967, aveva novant’anni, e pochi giorni prima di andarsene montava a cavallo.” Il racconto si deve al divino Gianni Clerici, nel fondamentale ‘500 anni di tennis’. Quando la famiglia si trasferì a Rockhampton (“Da quella parti nei giorni di Natale è facile svenire per il caldo”) il maestro di Rod Laver capì che sarebbe rimasto piccolo, quindi non gli corresse la presa mancina, come era avvenuto ad esempio a Rosewall e a entrambe le ragazze capaci di fare il Grande Slam, Little Mo Connolly e Margherita Court, e siccome “sapeva benissimo che i mancini, per una curiosa consuetudine che nessun anatomista ha mai approfondita, tagliano il rovescio” lavorò per rafforzare molto il polso e il braccio del piccolo ragazzino lentigginoso. “Anni dopo, venne in mente a qualcuno di misurare l’avambraccio di quell’omino di 68 chili, e si scoprì che era 12 pollici, esattamente come quello di Rocky Marciano. Il polso, poi, era 7 pollici, uno più di Floyd Patterson.”
Rod Laver aveva già completato il Grande Slam nel 1962, battendo in tre delle quattro finali proprio Emerson, solo al Roland Garros faticando molto, tra l’altro nelle curiosità annotiamo che lì perse un set degli ottavi contro il nostro Sergio Jacobini, romano, coetaneo di Nick Pietrangeli, oggi ampiamente dimenticato.
A proposito di italiani, l’avversario a Wimbledon in finale fu Martino Mulligan, allora ancora australiano, che si sposò a Roma e noi naturalizzammo. Proprio Martino aveva già avuto una palla del match nei primi turni del Rolland Garros contro Laver.
Prima del rosso mancino ce l’aveva fatta l’americano Donald Budge nel 1938, senza perdere un set nei quattro tornei fino all’ultima partita dove cedette il secondo a Mako. Dopo, più nessuno.
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Novak Djokovic è uno molto simpatico, un Nastase educato mi verrebbe da dire, cui manca a mio parere il talento scintillante di un suo corregionale (lo so che mischiare serbi e croati è molto rischioso) come Ivanisevic che di Slam ne ha vinto solo uno, ma che era uno spettacolo da vedere sul campo.
Djokovic indubbiamente ha il gioco giusto per questo tennis, del tutto diverso da quello che si giocava al tempo di Laver, o ai più recenti anni di Borg e McEnroe. Non è solo una questione di materiali, sebbene pure quelli contino, proprio parliamo di due pratiche che conservano molto poco in comune.
Di certo, se si esclude il talento puro di Roger Federer che con ogni probabilità avrebbe potuto disimpegnarsi ai massimi livelli in ogni era, gli altri protagonisti attuali sembrano giusti solo per questa epoca e non destinati a finire, quando qualcuno scriverà un altro libro come quello di Gianni Clerici tra gli “immortali”.
“Djokovic è forte fisicamente e mentalmente; ha una grande risposta e dal fondo ha due colpi che sono straordinari”, dice Paolo Bertolucci che aveva il braccio da assoluto fuoriclasse, ma non il fisico, e che oggi non c’entrerebbe niente con il tennis come viene giocato. Anche lui concorda sulle possibilità di Nole di lottare per tornare al Grande Slam, cinquant’anni esatti dopo l’ultima volta, peraltro mettendo in evidenza che il Roland Garros (e Nadal sulla terra) saranno l’ostacolo principale da superare, ancora di più di Federer sull’erba di Wimbledon dato che lo svizzero, nato nell’81, sembra avere infine letto la data stampata sulla sua carta d’identità.
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La prossima settimana si parla dell’altra metà del cielo, in:
Il mondo in mano a Naomi, una “hafu”