di Danilo Arona
Come scrivevo una vita fa, il termine “Utracorpo” è un vocabolo assente dal vocabolario. Non esiste e, non esistendo il vocabolo, non dovrebbe esistere la Cosa di riferimento. Invece esiste e fa parte della cultura di massa, che in questo come in altri casi detta legge: si tratta di un’invenzione “neologistica” degli anni ’50 del secolo scorso per andare a tradurre il termine Body Snatchers, con riferimento al romanzo omonimo di Jack Finney del 1955 e al film che ne trasse Don Siegel l’anno seguente.
Alla lettera si tradurrebbe come “ladri di corpi”, ma negli anni ’50 in ambito cinematografico la traduzione letterale poneva limiti semantici ben precisi soprattutto per la presenza nella storia del cinema di un Body Snatcher diretto da Robert Wise nel 1945, uscito in Italia l’anno dopo come La jena e dedicato per l’appunto a un trafugatore di salme interpretato da Boris Karloff.
Risolve benissimo la questione in tal modo Teo Mora nel suo Storia del cinema dell’orrore (Fanucci, 1978): “Body Snatcher, estensione semantica che indica i dissotteratori di cadaveri, è l’entità che, annullando la personalità individuale del corpo in cui si è introdotta, lo rende partecipe di un organismo stereotipato più ampio”. Plauso quindi alla genialità di chi inventò “Ultracorpi” (su “Urania” si saltò a piè pari il problema, traducendo con “Invasati”, che non c’entra nulla ed è pure il titolo italiano di un altro film di Wise, The Haunting), perché è un vocabolo inesistente, e mai riconosciuto, che “significa” coerentemente quel che vuole comunicare, ovvero la capacità ultra-fisica dell’entità invasiva.
Questo non è solo un pistolotto pretestuosamente semiotico, ma è già storia reale dell’Ultracorpo nel suo viaggio nella cultura di massa italiana, ormai forte di un settantennio. Perché, se devo render conto della mia laicità nell’affrontare il problema dello spodestamento della personalità individuale da parte di presunte entità invasive (quel che, generalizzando, in psichiatra chiamasi “dissociazione”), sarebbe per me più logico abiurare il termine “Demone” a favore della traduzione infedele di Body Snatcher. È ovvio che, pur agnostico, non ho problemi a usare il termine, anche perché all’origine Daimon è termine spesso svincolato da pertinenze religiose. Portatore per questa ragione di una clamorosa ambiguità.
Anche un geniale regista italiano come Michele Pastrello si è occupato del tema in oggetto con un corto cupo e meraviglioso presentato l’anno scorso al Circolo del Cinema Adelio Ferrero, dal titolo (appunto), Ultracorpo, il cui messaggio, chiarissimo, suona così: «Io li ho visti. Sono nascosti ovunque: nelle strade, nelle città, nelle campagne. Loro si nascondono nelle fabbriche. Si nascondono persino nelle nostre case. Ma io ho visto i loro occhi. Cercavano di impadronirsi del mio corpo e della mia mente. A quel punto ho sentito che dovevo difendermi, che dovevo fare qualcosa. Io dovevo difendere la legge naturale dell’ordine. Ma lui mi sussurrava: noi siamo dovunque.»
Ricordato il tutto, va da sé che Ultracorpo significa anche, e soprattutto, “corpo estraneo” e da qui partiamo per segnalare quanto siano azzeccati titolo e sottotitolo dell’ultima fatica dell’amico Alberto Pallotta, ovvero Piccola enciclopedia degli Ultracorpi – I B movies americani degli anni Cinquanta, laddove l’italico neologismo va a designare felicemente un ampio sottogenere del cinema fantascientifico di quel periodo “aureo”, mettendo in luce quanto quei piccoli film, ma non soltanto, fossero all’apparenza dei “corpi estranei” al divenire del genere, ma proprio per questo sostanziali nell’evoluzione soprattutto tematica. Perché, non sarebbe neppure il caso di ricordarlo, sono proprio i “corpi estranei filmici” che gettano abbondanti semi, in qualsiasi momento storico, per il futuro. Sarebbero mai esistiti il ricco Alien di Ridley Scott e l’ormai sterminata sagra degli Xenomorfi, sconfinata dal cinema ai libri e alle graphic novel, senza il povero e anticipatore Mostro dell’astronave di Edward L. Cahn (1958), che – vedete voi – nel titolo originale si chiamava pure It?
Avrebbe mai visto la luce il romanzo Carrie di Stephen King (e i vari film che ne sono stati tratti) senza che quest’ultimo visionasse, poco più che bambino, The Brain from Planet Arous di Nathan Juran (1958) in cui un malvagio alieno, dopo essersi “impossessato” di un corpo terrestre, uccide la gente emanando raggi letali dagli occhi – il legame ispirativo è stato più volte sottolineato dallo stesso King? E certi orrori gorgoglianti messi in scena da quel David Cronenberg che si è sporcato anche le mani nel sottofilone dei corpi in disfacimento si sarebbero potuti vedere senza un paio di shock di quell’epoca quali Fluido mortale di Irvin S. Yeaworth jr o I vampiri dello spazio di Val Guest, dove si agitano alcuni dei più efficaci blobboni del tempo?
Okay, forse ci muoviamo nel regno dell’ovvio. Ma quel che personalmente mi colpisce (al cuore) nel lavoro di Alberto è la notevole quantità di film che proprio non conoscevo, in quanto mai giunti allora in Italia, e che a giudicare dalle schede (il libro è un piacevolissimo reference book) mi sono perso veramente qualcosa. Il titolo che, sotto quest’aspetto, più mi colpisce è Dementia di John Parker (1955), che subito dopo avere letto la scheda di Alberto sono andato a recuperare su YouTube e trattasi davvero di un reperto straordinario. Ecco un passaggio di Pallotta che coglie alla perfezione nel segno:
«Un film inquietante, quasi del tutto muto, fatta eccezione per la musica, qualche rumore, qualche risata e una lugubre voce narrante… Le immagini sono irreali, grottesche, contrappuntate da una profondità di campo che ci spinge a tirare in ballo Orson Welles. Parlano di desideri, di fantasie, di paure… Non si può definire un horror, forse più un noir, o meglio ancora un thriller psicologico, ma è sicuramente più terrificante e disturbante di un film horror convenzionale. John Parker ha diretto solo questo film ed è facile credere che abbia influenzato il cinema di colleghi successivi come Polanski, Cassavetes e Lynch. Da vedere e rivedere, assolutamente.»
Verissimo. Premoderno in modo sconcertante. Un autentico Ultracorpo.