di Dario B. Caruso
Se si parla di schiavitù saltano alla mente immagini di catene, desuete eppure così attuali se pensiamo alla tratta che ancora oggi viene perpetrata ai danni dei più deboli, uomini, donne, bambini.
Le catene non sono solo quelle fatte di anelli di ferro che bloccano i polsi e le caviglie; ci sono parole e gesti talmente pesanti da limitare o addirittura annullare i movimenti altrui, ci sono sguardi e silenzi che uccidono la libertà.
I nuovi schiavi che additerò appartengono ad un’altra categoria: quella degli schiavi felici di esserlo perché non sanno di esserlo.
Alcune sere fa stavo zappingando su e giù per i canali del digitale terrestre (io, schiavo della TV, felice perché mentre scrivo non so ancora di esserlo) e mi trovo a sintonizzarmi sulla partita tra Juve e Milan in una città geograficamente e culturalmente lontana dall’Italia.
Vedo ventidue personaggi (venti stranieri e due italiani) che si giocano un titolo che non esiste, la Super Coppa d’Italia.
Sugli spalti un pubblico autoctono che applaude ed esulta acclamando beniamini di un calcio ricco negli incassi ma povero nei contenuti.
Ho associato queste immagini ad un’arena, un Colosseo moderno all’interno del quale muscolosi gladiatori acconciati per l’occasione si fronteggiano per divertire il popolo.
È sicuramente una lettura iperbolica; i gladiatori di oggi infatti vivono in un mondo dorato, possono permettersi auto di lusso, belle donne di pronta disponibilità, foto patinate, sponsor al seguito eccetera eccetera.
Restano però sempre gladiatori, schiavi dunque di odierni lanisti i quali godono di profitti e privilegi incalcolabili, anch’essi certamente schiavi di altri personaggi altolocati e nell’ombra.
C’è chi non vuol vedere perché gli è comodo.
Anche questa è una forma di schiavitù che può leggersi – volendo – come l’essere liberi.
E adesso ave, lector, sonaturo te salutat!