di Danilo Arona
Intanto confido nel senso dello humour di chi legge. E va da sé che questo articolo non è per tutti. Come terza excusatio non petita garantisco la più totale assenza di volgarità nelle righe che seguono. Tra pochissimo capirete. Poi, se il tema sia degno di una puntata del Superstite, lo decideranno i posteri.
Un piccolo preambolo giusto per introdurre (uhm…) il tema. Un paio di mesi fa stavo accompagnando un amico di Genova, che fa il rappresentante, al bar più vicino per berci un caffè e disquisire di materie comuni (il lavoro, la crisi, come si fa ad espatriare, e menate del genere), quando incrociamo sul marciapiede opposto un amico che si chiama R.C che mi apostrofa caldamente: «Ciao, Danilo, quant muntè!» e io a rispondergli: «Us na po pü». L’amico ligure, che mi vende la cioccolata più buona del mondo, strabuzza gli occhi perché, come dicono loro, non ha capito un belin e mi chiede spiegazioni. Ovviamente le trasmetto pure a voi, senza cadere nel triviale: R.C. mi ha così salutato «Ciao, Danilo, quanto copulare» e io di rimando «Non se ne può più». La spiegazione/ traduzione sconcerta ulteriormente l’amico perché a Genova questo modo di salutare il prossimo – con cui, ovvio, occorre trovarsi in estrema confidenza – non è in uso e allora lui, quando ci troviamo al bancone del far di fronte a due ottimi espressi, affonda ulteriormente la lama della curiosità.
«Oh, ma come mai vi salutate così?»
«Ma così… per ridere.»
«Ma… c’è qualche attinenza?»
«Con cosa?»
«Con la realtà.»
«Che dirti? Secondo me non è importante che ce l’abbia. Il fatto è che tu sei di Genova. E non di Alessandria. Noi, i pochi alessandrini che restano sulla piazza e intercalano in dialetto, abbiamo un umorismo un po’ greve e allusivo che non deve neppure strappare una risata, ma far meditare sulle tristezze della vita. Con quel pizzico, neanche troppo pizzico, di cinismo e autoironia che aiuta a tirare avanti.»
L’amico ligure trangugia il primo sorso di caffè e si esibisce in una espressione stupita. E poi:
«Non ho mica capito.»
«Che c’è da capire?»
«Cosa c’entrano le tristezze della vita con… insomma, è chiaro, no?»
«Eh, avrai notato che il tipo che mi ha salutato poco fa ha all’incirca la mia età.»
«E quindi?»
«Amico mio, per quanto proprio non me li senta, io tra un anno ne faccio 70 di anni. Insomma, non mi trovo più nella stagione del mandrillo…»
(Abbasso il tono di voce perché al di là del banco c’è una ragazza carinissima che magari ci scambia per due vecchi scemi… Forse un po’ vecchi, sì!).
«… perciò, come dire, nella frase c’è una sorta di autoreferenzialità ironica.»
«Ah… quindi ‘quanto’ vorrebbe significare invece poco o nulla.»
Tipica pignoleria genovese. Devono inventariare il millimetro. A loro delle boutade artistiche proprio nulla importa.
«Sì, ma non è detto che debba essere così obbligatoriamente. È una stupidaggine. La conosciamo in pochi. E quasi tutti con i capelli bianchi, o senza, come nel mio caso. Ma la storia viene da lontano.»
«Da dove?»
«Da quando, sarebbe meglio dire. Fine anni sessanta, piazzetta della Lega. C’era questo signore, simpaticissimo, mi pare si chiamasse Armando, una folta criniera argentata. Io avevo 18-19 anni. Allora, ci si conosceva e ci si salutava tutti e non esistevano menate generazionali. Insomma, tutte le volte che mi incrociava lo diceva con enfasi: Ciao, Danilo, tseisi quant muntè, e mica solo a me. Tutti quelli a cui lo comunicava ridevano come matti e lui era contento.»
«Tseisi?»
«Sapessi… Vuol dire sapessi.»
«Ma era vero?»
«Non lo so. Io mi sono sempre fatto i cavoli miei. Ma una notte è arrivata la polizia per le sue urla durante un presunto accoppiamento.»
(Abbasso ancor di più la voce. Insomma, la storia comincia a farsi ben più che pruriginosa. Di più, imbarazzante.)
«Ma come fai a saperlo?»
«Eh, abitavo dall’altra parte della strada. Due grandi palazzi dirimpettai. In piena estate, vedi tu. A un’ora tipo le tre. C’erano quasi tutte le famiglie del condominio fuori sui balconi. Le signore di una certa età apparivano scandalizzate. Il mio vicino di balcone si chiamava Raul e aveva riconosciuto il disturbatore dalla voce. E quasi a confidarmi un segreto fra spie in missione mi sussurrò: È Armando! Io con quel nome ne conoscevo più di uno e chiesi per limitare il campo: Armando quant muntè?, e Raul assentì. Le urla continuarono sino all’arrivo della polizia, ma proprio mentre un agente scendeva dalla macchina, i due amanti giacquero stremati. E i dirimpettai della mia parte di scatenarono in un applauso liberatorio. Senza peraltro che i poliziotti individuassero l’erotomane urlatore. In realtà tutti lo conoscevano, ma nessuno fece la spia.»
Il rappresentante di cioccolata scoppia a ridere.
«Ma che storia! Così il vostro collettivo saluto nasce da lì, da Armando, una sorta di mito di fondazione.»
«Se vuoi metterla così…»
Pago e usciamo. Lui continua a ridere e, tra un ghigno e l’altro, mi allunga con accento del tutto sbagliato: «Quant muntè! Ah ah, ah ah!»
Beh, l’aneddoto potrebbe terminare qui. Però il cronista che giace non del tutto sopito dentro di me ha il dovere di riportare che la mattina dopo la sonora kermesse notturna di Armando mi avvicinò il mio vicino Raul per confidarmi a bassissima voce: «Guarda che stanotte Armando era solo. Non c’era alcuna donna con lui.»
«Come?»
«Sì, una rumorosa commedia per far credere al mondo di essere un grande amatore.»
Sicuro. Ed ecco svelato il senso più filosofico del convenevole intercalare tra selezionati alessandrini di una certa età. Tra i quali il sottoscritto che chiede scusa per questa puntata de Il Superstite, vagamente licenziosa.