di Beppe Giuliano
Di guerra fra le grandi potenze si parlò molto nel primo decennio del Novecento: ne parlavano politici, scrittori, romanzieri e filosofi. Spesso chi ne parlava, chi la invocava, non sapeva bene che cosa in realtà fosse.
“Nel 1914, poco prima che la guerra scoppiasse davvero, un colonnello francese, che era adolescente nel 1870, quando la Germania aveva invaso la Francia, si imbattè in un gruppo di ufficiali che brindavano alla guerra – scrive Martin Gilbert – e ridevano alla prospettiva di un conflitto. Egli fece cessare di colpo le loro risate con una domanda: “Pensate davvero che la guerra sia sempre allegra, toujours drôle?”. Quel colonnello era Henri-Philippe Pètain. Due anni dopo, a Verdun, egli fu testimone di una delle carneficine belliche più spaventose di tutto il XX secolo.” Pètain fu amatissimo, un eroe nazionale, per come guidò l’esercito nella prima guerra mondiale e poi divenne invece il grande traditore di Vichy nella seconda. Incarcerato a 89 anni morì a 95: “Il 23 luglio 1945 – scriveva Enzo Biagi – i poliziotti aprirono un furgone cellulare e aiutarono un vecchio in divisa dell’esercito che faticava a scendere. Indossava l’uniforme cachi, portava il chepì dorato e i guanti bianchi. Aveva sul petto una sola decorazione: la medaglia militare… Tra la folla uno scalmanato urlò che bisognava mettergli “douze balles dans le peau.”
Condannato a morte, condanna commutata in ergastolo, in prigione aveva perso la fede.
Ancora Gilbert racconta di un ventiseienne deputato alla Camera dei Comuni che già nel 1901 intervenne dicendo: “mentre in passato le guerre si erano combattute con piccoli eserciti di soldati professionisti, una futura guerra europea in cui grande masse popolari verranno sospinte le une contro le altre si sarebbe conclusa soltanto con la rovina dei vinti e un non meno fatale sconvolgimento e impoverimento commerciale dei vincitori. La democrazia sarebbe stata più vendicativa delle corti reali e dei governi del passato: le guerre dei popoli saranno più terribili di quelle dei re.” Quel deputato, “che sapeva cosa fosse la guerra, avendola sperimentata in India, e nel Sudan contro i boeri” si chiamava Winston Churchill.
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“Il mondo sportivo è favorevole all’intervento bellico e la stampa rilancia come parole d’ordine che gli sportivi sono i soldati migliori e che per un esercito agguerrito bisogna incentivare lo sport”, racconta in una bellissima intervista a Il Manifesto Felice Fabrizio, insegnante milanese che ha scritto diversi libri sui rapporti tra sport e politica.
“Il nazionalismo usa un repertorio ideologico e un lessico che sono tipici del fascismo. Gli stilemi, le formule, sono gli stessi, il posto al sole, la grande patria, la terza Italia, la guerra come banco di prova dei migliori, lo sport come palestra dell’ardore volontaristico, disprezzo del pericolo, lo spirito di sacrificio che arriva fino alla sublimazione dell’eroismo e della morte in battaglia, sono tutte problematiche che vengono lanciate dai grandi vati, D’Annunzio, i futuristi, Corradini, Oriani, Papini, e che lo sport, la stampa sportiva, gli intellettuali di terzo ordine, che si occupano di sport, riprendono, organizzano in parole d’ordine che cominciano a circolare, si amplificano durante la guerra di Libia, che viene considerata il primo banco di prova dell’efficienza dello sport italiano.
La Gazzetta dello Sport, che da sempre è militarista, nazionalista, rafforza queste sue tendenze nell’imminenza della guerra, infatti il 24 maggio del 1915, il titolo di prima pagina è: “Per l’Italia contro l’Austria, hip, hip, hurrà”. I contenuti che si leggono sono: finalmente siamo in guerra, abbiamo lavorato fin dal 1896 per questo obiettivo e le nostre istanze, i nostri sogni si sono realizzati.”
Andrà in tutt’altro modo rispetto alle aspettative degli entusiasti: “Nel primo anno di guerra si contano 160 mila volontari e dagli alti comandi militari sono considerati d’impaccio, perché indisciplinati, politicizzati, sono mal visti e odiati dai commilitoni, perché li ritengono responsabili della guerra. Una delle canzoni di allora recitava: La colpa è dei vigliacchi studenti, son d’impiccio e la guerra han voluto. Non è la guerra che si aspettavano gli sportivi, soda e in campo aperto, grandi attacchi, una guerra di cavalleria, si trovano di fronte una guerra grigia, anonima, statica, è una gigantesca guerra industriale di distruzione di massa, dove la famosa arma-uomo, termine assai caro alla Gazzetta dello Sport, cede innanzi a una mitragliatrice che ne ammazza parecchi. Alla fine del 1915 gli alti comandi smantellano tutti i corpi volontari che vengono assegnati all’esercito regolare. Questa operazione è un’altra gigantesca delusione, tutto l’ entusiasmo, lo slancio promozionale, l’ardore volontario giovanilistico si spezza, va in mille pezzi.”
Tra i corpi volontari sciolti c’era quello dei ciclisti automobilisti cui avevano aderito i futuristi, che definirono la guerra “la sola igiene del mondo”: vi combatterono Marinetti, Funi, Bucci, Sironi, Carlo Erba che morirà sull’Ortigara, Umberto Boccioni che invece morì nel ‘16 per una caduta da cavallo, l’architetto Antonio Sant’Elia, come pure il futuro esploratore Ardito Desio.
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James R. Spensley, il fondatore del calcio genovese, “portiere, che esercita la professione di medico fra i molti connazionali residenti in Liguria” lo descrive Gianni Brera, si presentò volontario nell’esercito inglese. Ferito nella prima battaglia della Marna morì nel novembre del ‘15 all’ospedale di Magonza. Soltanto nel 1993 la sua tomba sarà individuata da due tifosi rossoblú.
Cadde nel ‘15 un altro celebre rossoblù, quel Luigi Ferraris, ingegnere, capitano del Genoa finché non smise col calcio perché assunto dalle Officine Elettriche Genovesi in qualità di vicedirettore, poi trasferitosi a Milano alla Pirelli come responsabile della produzione. A lui è dedicato lo stadio di Marassi. Cadde il giovane portiere Giovanni Zini, barelliere, morto a Cividale per un’infezione tifoidea, cui è intitolato lo stadio della sua Cremona, così come è intitolato lo stadio dello Spezia al primo capitano e primo marcatore della squadra, Alberto Picco, sottufficiale degli Alpini morto nell’assalto del Monte Nero.
Lo stadio di Como, esempio di architettura razionalista (corrente cui rimanda, per esempio, anche il Dispensario di Alessandria) e progettato dall’architetto Greppi cui si devono molti sacrari militari, è invece intitolato non a un calciatore ma a un canottiere: Giuseppe Sinigaglia, il più grande sportivo italiano di inizio secolo.
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Giuseppe Sinigaglia, cento chili e oltre un metro e novanta, era un gigante per l’epoca. Anche nel canottaggio.
Rimane ancora oggi l’unico italiano ad avere vinto la Diamond Sculls, regata per barca singola che fa parte dell’Henley Royal Regatta che si disputa sul Tamigi dal 1839, su una distanza di un miglio e 550 yarde (sono poco più di due chilometri e 100 metri) ed è una specie di Wimbledon di quello sport anche per la particolarità che i qualificati si sfidano in testa-a-testa, in un torneo che prevede in giorni consecutivi gli ottavi, i quarti, le semifinali e le finali.
Il vogatore del Lario lo vinse all’inizio di luglio del 1914. Gavrilo Princip aveva assassinato pochi giorni prima a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, e soli due giorni dopo la finale, l’Austria-Ungheria otteneva dalla Germania il cosiddetto “assegno in bianco”, cioè il via libera ad attaccare la Serbia.
La folle escalation militare e diplomatica che portò allo scoppio del conflitto fu piena di comportamenti insensati. Fra questi lo stretto rapporto che legava Guglielmo II Re di Prussia e imperatore tedesco e lo zar Nicola di Russia. I due erano cugini per parte di moglie (Guglielmo II era pure nipote della regina Vittoria e perciò cugino del re inglese Giorgio V) e continuarono a scriversi affettuosamente, una corrispondenza tra loro iniziata nel 1894, proseguita anche in quei giorni in cui le loro nazioni si apprestavano a combattersi. Si scrivevano in inglese, firmandosi Willy e Nicky. Quando lo zar fu fucilato a Ekaterinburg vennero rinvenute le lettere. Ce n’è una del marzo 1914 che Guglielmo intesta “Dearest Nicky” e firma: “With best love to Alix and the children. Ever your most aff-ate cousin and friend Willy”. Più volte in quei giorni di escalation Nicky scrisse telegrammi a Willy per cercare di evitare la guerra, una posizione almeno curiosa visto che nelle stesse ore ordinava la mobilitazione generale delle truppe.
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Sabato 4 luglio 1914 Giuseppe Sinigaglia affrontó l’inglese Collins Stuart nella finale della Diamond Sculls.
La Gazzetta dello Sport di venerdì 18 agosto 1916 racconterà quella regata leggendaria: “… Collins Stuart parte velocissimo e lo distanzia; Sinigaglia, nello sforzo dell’inseguimento, urta col remo nei pali che segnano il percorso e perde nuovo terreno. La gara sembra ormai perduta per lui. Stuart è acclamato dagli spettatori; gli ‘hurrà!’ salgono al cielo. Ma qui avviene il miracolo. Sinigaglia riprende, si mette sulla giusta rotta e insegue, le sue forze sembrano centuplicarsi, il suo skiff vola sull’acqua; a metà percorso ha raggiunto l’avversario, lo attacca decisamente e dopo un’emozionantissima lotta lo passa. Collins Stuart tenta di riprendere, ma invano: le forze gli mancano, e si rovescia svenuto sul sediolino”.
Lo farà perché, dopo Stuart caduto nel 1915 nelle Fiandre, anche il campione comasco arruolatosi volontario in fanteria, perí in combattimento.
“Datemi un po’ d’acqua del mio lago!”. Moriva così, col pensiero rivolto alla fresca acqua del suo lago di Como, Giuseppe Sinigaglia, sottotenente del II reggimento granatieri di Sardegna, ferito a morte sulla cresta del Monte San Michele e spirato, tra le braccia del tenente Verdelli, nell’ospedaletto allestito dall’esercito italiano a Villa Steffaneo-Roncato, a Craglio, in Friuli. Erano le 15,15 del 10 agosto 1916” si legge in ‘La migliore gioventù’ di Dario Ricci e Daniele Nardi.
(segue)