di Dario B. Caruso
Succede che il PC, il tablet o lo smartphone si incaglino.
Dobbiamo cancellare files, foto, documenti per far funzionare di nuovo questi marchingegni diabolici. Oppure possiamo acquistare nuovo spazio virtuale.
Abbiamo bisogno di più spazio.
Sempre.
Oggi misuriamo questo spazio – di cui apparentemente non possiamo fare a meno – in gigabyte.
Ma lo spazio indispensabile è altro da ciò.
Nelle nostre scuole viviamo incubi quotidiani: le aule sono intasate di banchi, zaini, cartelle, cartelline e i ragazzi non sanno come girarsi, gimcane per guadagnare la finestra o l’armadio. L’adulto ha quantomeno un perimetro cattedra di dimensioni umane, una sedia con braccioli e cinquanta centimetri di vivibilità per lato.
Non a caso nasce il parkour come disciplina sportiva, arguzia dei grandi per allenare gli adolescenti a saper sopravvivere in un ambiente saturo di inutilità.
Guardatevi intorno, al mattino tra le sette e mezza e le otto.
Le città sono invase da studenti con gli occhi piantati sul telefonino a cercare uno spazio virtuale che vada a sopperire a quello reale che mancherà loro per le successive cinque o sei ore.
Alla fermata del bus mentre l’amico parla al cell, in auto con mamma che parla al cell, per strada sui marciapiedi, al bar mentre papà fa colazione parlando al cell, davanti alla scuola in attesa della campanella di fronte ad un bidello con gli occhi sul cell.
“È come essere in galera” mi dice un giorno Antonio.
“Esagerato!” gli dico io mentre guardo il cell.
Poi penso a quella frase, iperbolica ma vera.
Ha ragione Antonio, è come essere in galera.
Non per i ritmi dello studio (ormai ahimè superati dal lavoro solo in classe), non per le stringenti regole scolastiche (ormai ahimè superate dalla discrezionalità di ciascuno), non per il timore del compito in classe (chi ha paura del lupo cattivo delle fiabe?).
Antonio ha bisogno di spazio, reale non virtuale.
Saper riempire uno spazio virtuale è possibile a tutti, più creativo è riuscire a riempire uno spazio reale. Avendolo, però.