Sibilla Aleramo: gli anni giovanili, un matrimonio riparatore e la scrittura come via di fuga [Alessandria in Pista]

Copia di Cento cannoni per Alessandria [Alessandria in Pista] 33di Mauro Remotti

 

 

 

Marta Felicina Faccio, detta ‘Rina’, nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876, maggiore di quattro fratelli (Corinna, Aldo e Iolanda), da Ambrogio, professore di scienze, ed Ernesta Cottino. Un anno dopo la famiglia si sposta a Vercelli, e successivamente a Milano dove Rina frequenta le scuole elementari instaurando un forte legame con la maestra Giuseppina Tavola.

All’età di dodici anni si trasferisce nelle Marche a Porto Civitanova[1], dal momento che il marchese Sesto Ciccolini aveva offerto al padre la direzione della filiale di una vetreria. Nella ‘cittaduzza’ non vi sono però scuole superiori, e così Rina è obbligata a proseguire la sua formazione scolastica sotto la guida paterna.

Inizia anche occuparsi della vetreria come contabile, toccando così da vicino i gravi problemi che la recente industrializzazione causa ai contadini del “Mezzogiorno”, trasformatisi per fame in operai. Infatti, oltre alle maestranze di origine piemontese o lombarda, la fabbrica fornisce lavoro soprattutto ai tanti braccianti che provengono dalla vicina campagna, molti dei quali sono costretti a emigrare in America. L’atteggiamento di Ambrogio Faccio nei confronti della manodopera locale è di assoluto disprezzo; la definisce: «razza inferiore e servile». Un’opinione purtroppo assai diffusa presso i dirigenti d’azienda dell’epoca.

Al principio, la famiglia Faccio suscita ammirazione e reverenza nella gente del posto, ma rapidamente il rapporto si deteriora. «Verso mio padre s’era ben presto accesa una sorda ostilità»[2] scriverà Rina, che impietosamente sottolinea i difetti dei maggiorenti del paese descritti come incapaci o indolenti: “«Non c’erano, di ricchi, nel paese, che il capitalista proprietario della fabbrica, quasi sempre residente a Milano, e un conte, padrone di quasi tutte le terre, il quale faceva rare apparizioni con la moglie, un grosso idolo carico di gioielli, al cui passaggio donne e uomini si curvavano sino al suolo. Una decina d’avvocati, annidati in un circolo di civili, suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra i piccoli proprietari dissanguati dalle tasse. Se si aggiungono alcuni preti e mezza dozzina di carabinieri, ecco tutta la classe dirigente del luogo»[3]

La madre soffre da tempo di crisi depressive, e nel 1889 tenta il suicidio gettandosi dal balcone di palazzo Cesarini Sforza, dimora familiare. Fortunatamente i fili del telegrafo attutiscono la violenza della caduta e la signora Ernesta se la cava con la rottura del braccio sinistro e piccole contusioni. La malattia si accentuerà progressivamente, tanto da consigliare il ricovero presso il manicomio di Macerata, dove la donna si spegnerà nel 1917.

Un altro increscioso episodio accade nel 1891, quando Rina, appena quindicenne, subisce violenza da un impiegato della fabbrica, Ulderico Pierangeli. Rimane incinta ma perde il bambino. Ciò nonostante viene costretta dalla famiglia a un matrimonio «riparatore» dal quale, nel 1895, nascerà il figlio Walter.

 

L’instabilità mentale della madre, unita alla costrizione matrimoniale e al gretto provincialismo del territorio, scatenano nella giovane alessandrina improvvisi sbalzi umorali e la portano a tentare il suicidio con il laudano.

La scrittura diventa quindi l’unica via fuga. Fra il 1892 e il 1894 inizia a collaborare (utilizzando gli pseudonimi di Nira o Reseda) con alcuni periodici regionali occupandosi della cronaca mondana. I suoi primi di articoli vengono pubblicati nella «Gazzetta letteraria», ne «L’Indipendente», nella rivista femminista «Vita moderna» e nel periodico d’ispirazione socialista «Vita internazionale». A questo periodo risale la corrispondenza con Giorgina Craufurd Saffi[4], coinvolta nelle battaglie per l’emancipazione femminile che Rina Faccio Pierangeli condivide pienamente.

Nel 1899 deve seguire il marito a Milano per l’avviamento di un’attività commerciale. Nella città lombarda le viene affidata la direzione del settimanale socialista «L’Italia femminile», fondato da Emilia Mariani[5], nel quale tiene una rubrica di dialogo con le lettrici intitolata “In salotto”. Diventa grande amica di Alessandrina Ravizza[6] e conosce influenti dirigenti socialisti come Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Alla fine dello stesso anno intreccia una breve relazione con il poeta Felice Damiani[7].

In seguito a dissensi con l’editore Lamberto Mondaini, lascia la direzione del settimanale e ritorna nuovamente a Porto Civitanova in quanto il marito ha ricevuto l’incarico di dirigere la fabbrica dopo le dimissioni del suocero. Nonostante la distanza, riesce comunque a intensificare la sua partecipazione a «Vita internazionale», iniziando a curare per «Novocomun» la pagina letteraria e a collaborare con il «Cyrano de Bergerac».

I difficili rapporti familiari e la convinzione di poter intraprendere finalmente la professione di scrittrice, fanno maturare in lei la decisione di trasferirsi a Roma dalla sorella Iolanda, abbandonando così per sempre il marito e l’amatissimo figlio: «Partire, partire per sempre. Non ricadere mai più nella menzogna. Per mio figlio più ancora che per me! Soffrire tutto, la sua lontananza, il suo oblio, morire, ma non provar mai il disgusto di me stessa, non mentire al fanciullo, crescendolo, io, nel rispetto del mio disonore!»[8]

(continua)

 

[1] Sul sito www.sibillaaleramo.it è possibile conoscere nel dettaglio gli anni giovanili trascorsi da Rina Faccio a Porto Civitanova.

[2] Sibilla Aleramo, Una donna, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 33

[3] Ivi, pp.28-29

[4] Giorgina Craufurd Saffi nasce a Firenze nel 1827 dallo scozzese John Craufurd e dalla nobile inglese Sophia Churchill. Nonostante il parere contrario del padre, sposa Aurelio Saffi, erede politico di Giuseppe Mazzini. Dopo l’unità d’Italia, diventa presidente della società di mutuo soccorso femminile di Forlì. Sino alla morte, avvenuta nel 1911, non fa mancare il suo impegno sul fronte dell’autonomia femminile e contro la prostituzione.

[5] Emilia Mariani (Torino23 marzo 1854 – Firenze27 febbraio 1917) ha dedicato la propria esistenza alle battaglie per l’indipendenza delle donne, nonché alla lotta per il miglioramento delle condizioni lavorative delle maestre.

[6] Alessandra Massini nasce in Russia nel 1846 dove il padre era fuggito durante la campagna napoleonica. A vent’anni sposa l’ingegner Giuseppe Ravizza, e la sua casa si trasforma in un frequentatissimo salotto borghese. Ben presto diventa una figura di riferimento del mondo dell’assistenza e dell’emancipazione ‘femminile. Muore a Milano nel 1915.

[7] Guglielmo Felice Damiani (Morbegno25 ottobre 1875 –Napoli23 ottobre 1904), pittore e poeta, pubblica diverse opere, tra le quali una raccolta di idilli intitolata «Le due fontane» e il racconto in versi «La casa paterna».

[8] Op. cit. p.157