Piccoli lavoretti crescono. Ma non aiutano a vivere. Non è certo possibile con 846,66 euro all’anno. Sì, all’anno. È questa la cifra media calcolata dalla Uil di Alessandria che ha realizzato una ricerca, fra le poche svolte finora in Italia, sulla gig economy (l’economia dei lavoretti, dal termine inglese ‘gig’) in provincia, in collaborazione con l’Università del Piemonte Orientale e il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio.
Il quadro è allarmante perché da un lato il modello economico che ruota intorno alle piattaforme internet in cui si incontrano la domande l’offerta piace a una parte di coloro che lo utilizzano ed è quindi in costante espansione, e dall’altro c’è un vuoto e una nebulosità normativa e giuridica che segna la profonda distanza tra l’Italia e il resto dei paesi europei.
La ricerca della Uil non lascia molto spazio alla fantasia. L’analisi delle risposte al questionario sottoposto a campione di 2.103 intervistati (maschi e femmine divisi equamente), con il supporto dell’agenzia di comunicazione ModusOperandi di Alessandria, fa emergere un quadro netto. Il guadagno medio è di poco superiore a 846 euro all’anno, mentre assume un forte peso il reddito annuale che è potenzialmente capace di generare il lavoro sulla piattaforma in provincia: circa 44 milioni e 614.000 euro. I giovani del campione hanno un diploma superiore (il 47 per cento) o la licenza media (35 per cento), solo il 9 per cento ha una laurea di primo livello e il 6 per cento una di secondo livello. Gli studenti rappresentano il 51 per cento del campione totale, i lavoratori il 39 per cento e i disoccupato quasi il 9 per cento. Di tutti questi il 25,73 per cento ha usato una piattaforma online per lavorare o trovare un lavoro.
Il maggior numero di “gig worker” rientra nella fascia di età fra i 19 e i 34 anni (68,58 per cento), seguita da quella 35 – 54 anni (19,22 per cento), 16-18 anni (8,13 per cento), 55 – 67 anni (3,8 per cento) e over 67 (0,18 per cento). Il 58,6 per cento degli utilizzatori delle piattaforme gig ha il diploma superiore, il 20,15 per cento la licenzia media e solo il 10 per cento ha una laurea. Il “gig worker” è quindi principalmente uno studente, fra i 19 e i 34 anni, che non cerca un lavoro attraverso le piattaforme online, bensì utilizza i lavoretti per un breve periodo per ricavare un reddito minimo da utilizzare per il sostegno allo studio o da accantonare in vista di vacanze o acquisti futuri. Che sia un reddito unico (nel 31 per cento dei casi) o una integrazione al reddito (per il 55,45 del campione), in ogni caso l’impegno è contenuto in poche ore alla settimana (la media è di tre ore) per un compenso orario di 5,43 euro. La “gig economy” non è quindi l’obiettivo della vita anche perché il 54 per cento del campione ha detto chiaramente che “non ha alcuna garanzia o tutela durante il lavoro” (il 45,47 per cento degli intervistati ha preferito non rispondere) e solo il 4 per cento ha affermato di essere in qualche modo tutelato.
Confusione normativa, totale incertezza rispetto alle tutele, compensi irrisori. Eppure il 56,38 per cento degli utilizzatori delle piattaforme gig ha definito “positiva” l’esperienza di lavoro, ovviamente “se valutata in un’ottica di lavoro occasionale e di breve periodo, ma se ci fossero paghe adeguate, forme contributive e più controlli e garanzie questi lavoretti potrebbero cominciare a essere considerati dei veri e propri lavori” si legge sulla ricerca Uil. Sono in molti, scorrendo le diverse risposte al questionario, a vedere nella gig economy una opportunità per entrare nel mondo del lavoro anche grazie alla flessibilità delle mansioni e alla possibilità di lavorare da casa.
La piattaforma più utilizzata in provincia di Alessandria, emerge sempre dallo studio dell’organizzazione sindacale, è Justeat (consegna pasti a domicilio) che rappresenta il 33 per cento, seguita da Ti-aiuto.it (piattaforma che offre vari tipi di impieghi come babysitter, lavori domestici, assistenza familiare) con il 28 per cento. Non mancano altre piattaforme dedicate, oltre che alla consegna a domicilio, alla realizzazione di lavori creativi (grafica, montaggio video, traduzione testi). Interessante il dato fornito dal 13 per cento del campione che ha trovato lavoro attraverso Linkedin o Facebook. Il valore della ricerca della Uil, elaborata grazie all’Università del Piemonte Orientale, è anche in un altro aspetto, certamente non positivo: la mancanza di conoscenza del fenomeno della gig economy da parte di agenzie interinali e centri per l’impiego.
La Uil di Alessandria, guidata da Aldo Gregori, nell’aprile del 2017 aveva organizzato il convegno “Dal Jobs Act al Jobs App: l’era della Gig Economy” che è arrivato a distanza di un anno da uno studio nazionale della Uil sul fenomeno. Nel frattempo non sono mancate alcune sentenze, come quella del Tribunale di Torino che ha respinto il ricorso di sei fattorini di Foodora, sostenendo che il lavoro dei rider, in quanto lavoratori autonomi e non dipendenti, potesse essere interrotto in qualsiasi momento da parte dell’azienda. Per effettuare lo studio è stato fondamentale il ruolo dell’ateneo con la professoressa Fabrizia Santini, docente di diritto del lavoro al Digspes (Dipartimento di giurisprudenza, scienze politiche, economiche e sociali) che ha coordinato l’attività svolta da Samuele Beltrame (borsista) e Giulia Grossi (laureanda in diritto del lavoro). Per la compilazione dei questionari è stata utile la collaborazione di ModusOperandi con Alessio Versace. “Come sindacato – è il commento di Aldo Gregori – non possiamo farci cogliere impreparati, non studiare, e invece dobbiamo comprendere le dinamiche legate allo sviluppo della tecnologia, allo scambio di domanda e offerta di prestazioni lavorative che avviene online tramite app dedicate, scaricabili su smartphone e tablet. Vogliamo capire se esistono margini per intervenire, come comportarci per tutelare i lavoratori, perché questi fenomeni spesso rischiano di sfuggire al controllo e alla regolamentazione”. Come in buona misura ha dimostrato la ricerca alessandrina.