La sera del 23 settembre dell’anno 2001 a New York successe qualcosa.
Nessuno ne parlò e ne scrisse mai.
Il dramma di dodici giorni prima imponeva a chiunque un atteggiamento sobrio e rigoroso. E soprattutto realista.
Sin dalla mattina del 12 settembre circolò nelle menti di tutti, quasi telepaticamente, il veto di accennare al volto di Satana fra le fiamme, agli UFO visti volare attorno alle Torri durante le fasi dell’attacco, alla storia dei 4000 ebrei che lavoravano nel WTC e tutti salvi per assenza ingiustificata, al treno carico di pendolari bruciato nella stazione sotterranea. In tanta assunzione di responsabilità collettiva si comprendevano anche le decisioni hollywoodiane di tagliare ogni sequenza da pellicole in uscita in cui apparissero le Torri. Vittime illustri: Spider Man di Sam Raimi, un film dei Digimon e John Rambo di Stallone (che poi avrebbe visto la luce). Insomma, la gente di New York non doveva lasciarsi lasciarsi andare in alcun modo a una deriva irrazionalista, tentazione quasi irresistibile in quei giorni di percezioni alterate.
Eppure successe qualcosa. All’ora del crepuscolo. È documentato. Ma, per quello che ho appena scritto, i testimoni decisero di dimenticarsene. O finsero. Le visioni non si dimenticano, neppure quando provengono dal proprio inferno personale.
I primi ad accorgersene, tra le otto e le nove di sera, furono alcuni residenti del Lower East Side di Manhattan. Gente di etnie diverse che abitava in Madison Street, dalla quale per decenni si era goduta una visuale privilegiata delle Torri Gemelle soltanto con una semplice e distratta occhiata.
Mike Torres, che allora gestiva una drogheria tra Rutgers e l’East Broadway, se ne avvide poco dopo le otto e trenta, dopo avere chiuso le serrande.
Le Torri erano tornate.
Mike, quarant’anni abbondanti, messicano per parte di padre, spalancò la bocca e se ne stette lì, davanti al suo negozio, a guardarle per un minuto e mezzo col rischio di ingoiare gli insetti svolazzanti che provenivano dalle acque dell’East River.
Tentava di capire, Mike. Per essere le Torri, lo erano. Però quei parallelepipedi maestosi tremolavano. Parevano un miraggio. Un ologramma. O, come si chiamavano… ah, certo, Fate Morgane.
Ma le vedeva solo lui?
Come sentì dei rumori provenire nella sua direzione dal lato sinistro, voltò lo sguardo e notò una piccola e graziosa ragazza cinese, più o meno sui trent’anni, che puntava verso il parco di gran fretta. La conosceva di vista. La tipa era entrata in drogheria un paio di volte a cercare del Ramune e una bottiglia di Mirinda. In tutti e due i casi Mike non aveva potuto accontentarla. Però, quando la cinesina si ritrovò alla sua altezza e lui si ricordò di richiudere la bocca, decise di fermarla e di procedere con la verifica.
“Mi scusi”, la bloccò alzando la mano con fare amichevole. “Mi conosce, vero? Sono Mike, il padrone della drogheria.”
Lei gli indirizzò un’occhiata un po’ stupita, ma dalla quale si capiva con chiarezza che da qualche parte forse qualcuno stava scalpitando per l’eventuale ritardo.
“Sì?”, gli rispose comunque.
“Vorrebbe essere così gentile da guardare”, e si concesse una pausa dopo la sottolineatura, “laggiù.”
E, per essere più chiaro, puntò il dito verso quella zona che già in tanti avevano preso a chiamare Ground Zero.
Lei curvò il collo. Si chiamava Angela Wu. Faceva l’infermiera allo Springfield General Hospital. Piccola, carina e anche un po’ diffidente. Il quartiere aveva i suoi problemi. E spesso si trattava di problemi chicanos.
Ma, quando le vide, Angela Wu si sentì stringere il cuore. E le gambe per un pelo non le cedettero.
Pure lei spalancò la bocca. Ma per molto meno tempo di Mike. Gli orientali, è noto, intrattengono un rapporto molto più sereno con il soprannaturale di quanto non siano in grado di fare i nativi della Grande Mela.
Guardò Mike.
E Mike scoprì accanto a sé una graziosa ragazza con gli occhi a mandorla quasi lucidi. E sorridente.
“È meraviglioso”, esclamò Angela Wu. “Sono le Torri!”
“Non è spaventata?”
“No”, fu la risposta, “è un dono di Dio.”
“A me fa paura”, ribatté Mike, “voglio dire… posso accettare i fantasmi della gente morta. Ma questo non è pensabile. Non possono esistere i fantasmi… i fantasmi delle cose, dell’acciaio e del granito. Non crede?”
Lei negò con la testa. E tornò a guardarsele con espressione quasi beata. Sussurrando dopo almeno mezzo minuto: “Le Torri non erano cose. Erano città. Chiuse, ma vive. Dicono che ci siano morte più di tremila persone. Tremila fantasmi sono in grado di compiere questo miracolo. Un campo unificato di coscienza. E là si trovavano le società più importanti del mondo commerciale ed economico.”
Fece una pausa. E: “Ma non le stiamo forse vedendo?”
Mike ne convenne. Tentando però di opporsi, a modo suo, a quel che vedeva.
“Sì, certo, ma… sono luci, forme evanescenti.”
“È un fenomeno inspiegabile, se vuole spiegarselo con la mente. Ci provi con la pancia.”
Intanto altre persone si stavano accorgendo delle Torri fantasma. E si formavano crocchi. All’angolo con Catherine Street, a una decina di metri da loro, quattro persone gesticolavano e discutevano con animosità.
“Andiamo a sentire che dicono quelli”, propose Mike ad Angela. “Non siamo soltanto noi due ad avere le traveggole.”
“Oh, ma io sono certa, signore, di quel che vedo”, rispose lei mentre lo seguiva.
Già qualcuno stava prendendo il sopravvento in quel gruppo. Si chiamava B.J. Crown, di mestiere psichiatra e da dodici giorni si occupava solo più di stress post-traumatici e della salute mentale dei superstiti dopo l’avvenuto disastro. Per forza di cose, stava pontificando e i suoi tre occasionali seguaci – una donna di colore, un italiano attempato e un irlandese mezzo ubriaco – volevano pendere dalle sue labbra. Perché dalla loro posizione, all’incrocio, le Torri apparivano ancora più tremolanti e diafane. Immensi fantasmi di 411 metri d’altezza.
“Datemi retta”, quasi gridava, “non è quel che sembra. Sono le luci degli operai del soccorso. Soltanto quelle. Siete voi che volete vederci quel che non esiste più. Rendetevene conto. Stanno sfarfallando, sono trasparenti. SONO SOLTANTO LUCI!”
“Sì, ma sono la più bella cosa che abbia mai visto da dodici giorni a questa parte!”, gli ribatté Mike alle spalle.
Crown si voltò. Squadrò quel tipo dai lineamenti senza dubbio latini affiancato da una piccola cinese e scosse la testa. Poi, scocciatissimo, mollò tutti lì all’incrocio e se ne andò. Qua e là, per le strade e sui balconi, la gente si radunava, contemplava e commentava.
Poco prima delle undici le luci a forma di Torri scomparvero di colpo.
Mike e Angela, che avevano raggiunto il lungomare dell’East River per godersi al meglio il panorama delle Torri fantasma, si nutrirono di quella visione per un paio d’ore, sentendosi l’anima piena di conforto e di triste consapevolezza.
Mike si era persino spinto a sfiorare una mano di Angela.
Lei, pensando che a volte occorre lavorare anche per strada, non aveva protestato.
Però il droghiere latino, nel suo genere, era passabile. E molto più sensibile della media di quelli che Angela aveva conosciuto sino a quel momento.
“Torneranno, Mike?”
Lui annuì. Lei insistette.
“Anche se, come diceva quel tipo all’angolo con la tua strada, sono un’immagine della nostra mente?”
“Io dico di sì. Ma forse le persone non dovrebbero tutto questo casino. Laggiù all’angolo sembrava di essere all’inizio di Independence Day. Se vogliamo continuare a vederle, dobbiamo tacere. Al limite, passare per matti. Ma silenziosi.”
“In questo sei molto orientale, sai?”
Quindi lei optò, a causa della sua piccola statura, per l’unica avance che poteva permettersi, ovvero appoggiare la testa all’altezza dell’ascella di Mike. Alla spalla proprio non ci arrivava. Per fortuna si trattava di un’ascella profumata e che sapeva di fresco.
Le Torri fantasma tornarono. Più volte. Sempre verso sera. Per la gioia segreta di molta gente del Lower East Side. Per parecchi mesi queste persone finsero che non era così. Nessuno ne parlò e ne scrisse. Soprattutto, nonostante le centinaia di testimoni, non esiste traccia di loro alla data di inizio delle apparizioni. Appunto, il 23 settembre 2001.
Purtroppo, per motivazioni che mi sono ignote (o sulle quali posso azzardare ipotesi quantistiche sulle quali si può sorvolare), le Torri fantasma iniziarono ad apparire anche di giorno. Dato il più alto numero di persone coinvolte nelle visioni, se ne arguisce che almeno un cinquanta per cento della popolazione di New York non vede proprio nulla laddove qualcuno punta il dito con stupore e timore. Però, per convincere gli scettici, c’è chi ha pensato, bene o male, di fotografarle. Non sono esperto in materia, ma so che oggi esistono fotocamere digitali che farebbero persino di me un novello David Hamilton. Sciocchi paragoni a parte, dal 2005 a oggi qualcuno le ha immortalate. In Rete girano diverse istantanee. Se volete scoprirle, basta digitare “Twin Towers Ghosts” su Google. Buttateci gli occhi. Ed esprimete un giudizio, libero e democratico.
Di certo nessuna fotocamera può fissare su pellicola le immagini della nostra mente. Almeno, non che io sappia. Le più impressionanti risalgono al giugno del 2005 e al settembre del 2008. Stanno lì, fra gli altri grattacieli, come se l’11 settembre 2001 non fosse mai esistito.
Ombre grigie, immani e minacciose.
Per quel che mi riguarda, non le ritengo affatto un dono di Dio.
Sono terrorizzanti e testimoniano che a Ground Zero è ancora in atto una distorsione temporale, alimentata dall’energia di tremila persone vaporizzate. Terrorizzate e incazzate come neppure si può immaginare.
Datemi retta: se questo è un regalo, può solo arrivare dall’inferno.