Il mio nome è Poldo.
Almeno credo, visto che il tizio che mi trascina al suo fianco sembra pronunciare una parola con quel suono quando mi guarda.
Mi guarda spesso.
A volte mi guarda anche quando non vorrei, per esempio mi osserva intensamente quando alzo la zampa posteriore destra per orinare sul cerchione dell’auto di turno; oppure quando in mezzo al viale mi soffermo, eseguo la mia cacatina a regola d’arte e lui la raccoglie per gettarla nel cestino.
Poi mi guarda mentre stringe la mano (la stessa mano della raccolta) a mezzo vicinato.
Mi guarda quando a casa riposo tranquillo sul tappeto, nelle lunghe giornate d’autunno.
Mi guarda e apre la bocca pronunciando suoni a cui non so dare un valore: chissà cosa mai vorrà comunicare, cosa mi racconterà – assolutamente incompreso – per colmare la sua solitudine.
L’unico momento in cui sono davvero felice è quando mi guarda e mi accarezza delicatamente.
Allora penso: se avesse regalato alcune di queste carezze a suo figlio, probabilmente avrebbe altro da guardare, oltre me.
Potrebbe passeggiare con lui, parlare e dialogare con lui, sorridere e scherzare con lui.
Senza neanche il bisogno di raccogliere cacatine per strada.
Ormai mi sono abituato, continuerò a vivere con una persona che mi guarda e che crede di parlarmi.
Ma io riconosco solo Poldo, o qualcosa con quel suono.
Bau a tutti.