Un mostro chiamato Girolimoni [ALLibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

 

Tra le novità editoriali di questo mese di settembre, da segnalare il libro Un mostro chiamato Girolimoni, scritto a quattro mani da Fabio Sanvitale (giornalista pescarese esperto di casi storici di cronaca nera) e da Armando Palmegiani (psicologo ed esperto di scena del crimine)e pubblicato da Sovera Edizioni.

Gino Girolimoni è un nome che a Roma vuol dire infame. Un nome che ha segnato le prime pagine dei giornali raccontando le drammatiche gesta di un assassino che si aggirava per Roma negli anni tra il 1924 e il 1928. Il nome di chi avvicina le bambine, le cerca, le vuole, le prende. Un nome usato ancor oggi e che nel 1972 ha ispirato un film diretto da Damiano Damiani e interpretato da Nino Manfredi. Già, ma chi era davvero Gino Girolimoni?

Un uomo benestante, coinvolto nella Roma degli anni Venti in una storia molto più grande di lui, così, dall’oggi al domani viene arrestato, accusato di ben sette tra stupri e omicidi a danno di bambine.

Peccato che Girolimoni fosse completamente innocente, peccato che ogni prova fosse inventata di sana pianta per placare l’isteria, la follia che ormai s’era impossessata dei quartieri della città, della gente.

Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, con l’aiuto di esperti di primo piano, ricostruiscono la vicenda dandone il quadro storico e criminologico completo rispolverando le indagini, passo dopo passo, strada per strada, sospetto per sospetto, utilizzando le tecniche investigative di oggi.

Nello spazio di Allibri per questa settimana proponiamo in lettura il secondo capitolo di Un mostro chiamato Girolimoni.

 

di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani

 

È il pomeriggio del 31 marzo 1924 di un tempo lontano: tanto lontano da oggi da sembrare che sia passato più del salto da un secolo ad un altro. Uno di quei pomeriggi qualsiasi, in cui dei bambini si trovano a giocare nei giardinetti della centralissima piazza Cavour che, ieri come oggi, stanno proprio lì, dirimpetto al Palazzo di Giustizia che, ieri come oggi, per i romani è il Palazzaccio, soprannome che dimostra l’evidente grado di apprezzamento, da parte della popolazione, per il lavoro svolto dall’architetto.

Un pomeriggio di sole. Sono le 18. I bambini che giocano sono bambini benestanti, puliti e ben vestiti; e, più in là, la loro bambinaia che fa la guardia.

I bambini sono due: Emma, che ha 4 anni e mezzo, ed il fratellino che di anni ne ha 2.

Un pomeriggio in cui va tutto bene, tutto come dovrebbe andare i bambini a rincorrersi e la bambinaia che chiacchiera con le amiche, seduta su una delle panchine della piazza. Sono arrivati fin lì dopo aver fatto una passeggiata da Piazza della Marina 21, dove i Giacomini – questo il cognome dei bambini – abitano, vicino Piazza del Popolo. È giusto così: una mezzora abbondante di passeggiata e poi i giardinetti.

Ma c’è un momento in cui la bambinaia si gira e non li vede più. Dove sono i bambini? Eppure erano qui, un attimo fa! Si alza, li chiama. Ma, possibile? Nessuno dei due risponde! Si saranno nascosti e se è uno scherzo è proprio uno scherzo stupido. A casa mi sentono: e sentiranno anche la signora – è questo il modo di comportarsi? Adesso anche le amiche la aiutano. Li chiama ancora, li cerca tra gli alberi della piazza. Tutte cercano, tutte chiamano, tutte guardano. Il tramonto si avvicina e con lui un sospetto che si fa certezza: non solo i bambini non ci sono, ma stavolta non sono loro ad essere svaniti. È lei che li ha persi di vista, lei che non li ha guardati. Le ombre degli alberi della piazza si fanno nere e lunghissime, di colpo.
Oddio.
Svaniti – tutti e due.

Due ore più tardi.
C’è un orto. Nella allora, periferia di Roma. C’è una donna. Si chiama Caterina Ferroni, viene da un paese vicino, a 50 chilometri dalla Capitale, Sutri; ma nella grande città vive nei pressi di Monte Mario, in vicolo Strozzi 21. Monte Mario, che nel 1924 è una collia disabitata della grande città, dove più che altro ci sono fornaci, solo fornaci. Sente dei lamenti, Caterina: ascolta meglio. Qualcuno piange. È la voce di una bambina e viene dal suo piccolo campo. Esce nella notte, si guarda intorno. C’è proprio una bambina: cammina e le si avvicina tenendo in mano le sue mutandine. Legato al collo, ma davvero stretto, ha un fazzoletto colorato, quadrato, di 40 cm di lato.

Le chiede di scioglierlo: e la sora Caterina lo fa immediatamente. Ma non è l’unica ad aver sentito quei lamenti. Dalla strada sbucano infatti anche Maggiolaro Vittorio e sua moglie Levati Lucia, che escono dalla porta della trattoria “Bella Napoli” che si trova sempre nello stesso Vicolo Strozzi. E dietro di loro Filomena, 56 anni, che della trattoria è la proprietaria. Sono proprio loro che arrivano dopo la Ferroni, ma sono Vittorio e sua moglie che portano la bambina a casa loro, cercando di darle le prime cure.

E già: perché la bambina che è venuta fuori dal buio con le mutandine in mano è proprio Emma.
Solo qualche ora dopo, al Commissariato, sarà possibile dare una spiegazione alla scomparsa di Emma e riempire quel vuoto di due ore che finisce con la sua ricomparsa in vicolo Strozzi.

In quelle due ore, mentre i Giacomini ne dicevano di tutti i colori alla bambinaia in lacrime e si temeva il peggio, l’ipotesi prevalente era stata quella che Emma ed il fratellino si fossero allontanati spontaneamente ed avessero perso la via dei giardinetti: tutto sommato, l’ipotesi più tranquillizzante.

Ma l’ipotesi era stata cancellata dopo poco: il tempo di ritrovare il bambino, in lacrime, davanti al cinema di piazza Cola di Rienzo. Quel bambino che piangeva a dirotto aveva attirato l’attenzione degli spettatori e dei passanti. E così l’avevano riportato ai giardinetti di piazza Cavour, distanti solo 600 metri dal punto della sua riapparizione. Ma un bambino di 2 anni che indicazioni poteva dare alla polizia? Nessuna.
Qualcosa però poteva dirlo. E l’aveva detto.
Che era arrivato, mentre giocavano, un signore, un signore che non conoscevano, sì, mai visto prima, che aveva portato lui ed Emma prima in un caffè, lì vicino, non sapeva dove, e qui aveva acquistato loro quattro paste e dei cioccolatini.

Era gentile, quel signore, li aveva tenuti sempre per mano. Poi erano passati davanti al cinema e lui lo aveva mollato lì, ecco. Questo voleva dire che, da piazza Cavour, avevano percorso via Tacito e quindi erano sbucati in piazza Cola di Rienzo: una ventina di minuti di strada, paste e cioccolatini inclusi.

Quello che nessuno sapeva era che, più in là, l’uomo s’era fermato di nuovo, stavolta in via Marcantonio Colonna, a comprare delle caramelline a Emma, in una drogheria. Ma questo avveniva prima che arrivassero in vicolo Strozzi, prima che gli occhi dietro le finestre di quelle case vedessero scivolare l’uomo e la bambina nell’orto della Ferroni, prima che scivolassero tutti e due dietro una siepe…

Ed ora Emma riappariva due chilometri più in là, alle pendici di Monte Mario dicevamo, dove oggi c’è piazzale Clodio, per intenderci. Riappariva dopo pochi minuti che era svanita dietro la siepe. Forse aveva gridato? Era questo che aveva spaventato l’uomo, facendogli mollare la tenera preda? I medici, in ospedale, al San Giacomo, di cevano – ormai era notte fonda, intorno – che aveva contusioni ed escoriazioni varie, sia ai genitali che al collo. Qualcosa doveva aver disturbato il suo assalitore, che non era riuscito a violentarla. Non era stata trovata alcuna traccia di sperma. Emma era salva.

Intanto i quattro testimoni affermavano d’aver visto “un uomo, di più di 50 anni, dall’aspetto distinto, dal viso scarno, snello, alto circa 1.70, vestito con un paletot scuro, con un cappello nero”, che portava la bambina verso la siepe.

Intanto, un primo sopralluogo nell’orto consentiva di trovare, alla luce delle lanterne, una caramella di quelle comprate nella drogheria e soprattutto un bottone d’osso, bianco, da mutande da uomo, di circa 16 mm di diametro.
E poi c’era il fazzoletto: quadrato, con orlo a crocette e sfondo grigio verde. Aveva inquadrature a righe gialle, racchiudenti quattro orecchiette per lato di colore turchino a palline giallo-arancio; nel centro presentava gruppi di anelli e rombi di vari colori, bianchi, paglierini, celesti e gialli, sì da costituire, nel suo insieme, un disegno. Armando – gli chiedo – che ne pensi di tutto questo?
“Certo che se ci fossero state tracce di sperma difficilmente sareb- bero state rinvenute. Un sopralluogo all’aperto, in una zona di campagna, è difficoltoso ai giorni nostri, figuriamoci allora. Poi, in particolare, lo sperma si assorbe troppo facilmente nel terreno: al giorno d’oggi avremmo potuto provare a cercarlo mediante luci forensi che, com’è noto, se utilizzate nell’ultravioletto, evidenziano lo sperma ren dendolo fluorescente: ma quelli erano altri tempi. La ricerca venne fatta nel buio totale e con l’ausilio di lampade a petrolio.

E poi c’era il fatto che il “Mostro” non aveva ancora colpito; quello che era avvenuto era un caso singolo. Il che, probabilmente, non fece approfondire la ricerca di eventuali tracce nel punto di ri- trovamento della bambina. Venne probabilmente trattato come un rapimento a fini libidinosi e gli investigatori si concentrarono mag- giormente sulle dichiarazioni di eventuali testimoni, tanto che la Polizia Scientifica non venne nemmeno interpellata”.

Era, per il momento, tutto quello che la polizia aveva in mano per procedere per tentata violenza carnale.

Nessuno poteva immaginare quanto quella bambina che sbucava dal buio di Vicolo Strozzi, con le mutandine in mano, non fosse che l’inizio della tragedia che stava per rovesciarsi come un temporale su Roma.