Quarta Parte
C’era un’osteria lungo la strada in direzione dell’acciaieria. Una foglia di vite e un grappolo d’uva blu china dagli acini rotondi era dipinta sull’unica finestra del locale. Quirico decise di fermarsi lì, dopo aver fatto posteggiare la macchina sotto un salice, in mezzo a due carretti pieni di legna da tagliare. Andava spesso a mangiare dall’Enea: il vino era buono e c’era sempre qualche fetta di lardo dolce dolce, con un filo rosa nel mezzo che appena messo in bocca sembrava sciogliersi contro il palato.
L’aria era più fresca che in città e gli odori della campagna e della stalla si spandevano sul silenzio pesante del commissario. Gli rimaneva solo una manciata di ore a disposizione per trovare i colpevoli, e riuscire a capire in così poco tempo qualcosa di quelle squadre di partigiani che si davano da fare senza neanche mettersi d’accordo tra di loro, era un’impresa quasi disperata.
Forse aveva ragione il tenente. Ma lui voleva provarci lo stesso.
Un primo passo lo aveva già fatto, proprio sul posto dell’attentato. Era salito con Caviglia, più taciturno di lui. Uno che pensava sempre agli affari suoi e non dava confidenza a nessuno. E parlava solo se il commissario gli faceva qualche domanda.
Avevano mangiato un sacco di polvere su quello sterrato pieno di buche e di residui sassosi che scappavano fuori dal terreno come lame aguzze. La cava era ormai in disuso da anni, più nessuno ci lavorava. Solo di tanto in tanto, quando qualcuno aveva bisogno di pietre, andava a prendersele. Era alta più di settanta, ottanta metri, per una larghezza di circa la metà, e sembrava una ferita nella montagna, senza più vegetazione e con dei becchi rocciosi che cadevano spioventi. Di fronte il paesaggio era più dolce. Il verde del bosco spiccava contro il bianco arido di quella scheggia di montagna scrostata.
Ed era proprio dal limitare del bosco che erano partite le fucilate. Tre o quattro, sparate da punti diversi e forse tutte da mani diverse, almeno a sentire il tenente Schroth. Nessuna vittima, ma il camion era stato investito dalla raffica di colpi e reso inservibile. Giaceva ancora là, seduto sui cerchioni con le gomme squarciate e la carrozzeria aperta sopra e sotto.
Quirico aveva fatto fermare la macchina una ventina di metri prima della carcassa del camion. Teneva in mano il rapporto del tenente come fosse una mappa, si guardava in giro e leggeva e camminava a piccoli passi, setacciando con lo sguardo tutto quello che correva attorno i suoi occhi a terra e a mezz’aria.
Poi gli era parso di trovare qualcosa di interessante.
Era proprio la carcassa del camion. Sul rapporto non era citato nulla di quello che vedeva. Il camion era stato investito da una vera e propria scarica di schegge e pallini di ferro che avevano lasciato tracce del loro passaggio ovunque.
Si era inginocchiato a raccogliere qua e là dei pezzetti sparpagliati e li aveva annusati: puzzavano di polvere da sparo e di ruggine.
Si era voltato verso Caviglia arricciando i baffi in una smorfia di perplessità.
“Hanno sparato con qualche vecchio fucile da caccia.”
Il rapporto non citava questo particolare, e Quirico aveva pensato che fosse molto strano. I partigiani non erano granché armati, ma possedevano pur sempre armi automatiche e comunque di uso militare, e se non erano dell’esercito italiano erano magari inglesi o americane, paracadutate chissà dove. Se erano ridotti così male da usare vecchie doppiette, come potevano pensare di occupare quel territorio nei giorni a venire?
A tutto questo Quirico pensava, seduto davanti alle fette di lardo e pancetta, e in compagnia del silenzio di Caviglia.
Provava a riflettere ma nel caos ogni suo pensiero tornava indietro, come se rimbalzasse contro un muro di gomma. La situazione attorno alla città era confusa, il che era la sua sola certezza. L’improvvisa decisione dei comandi partigiani di occupare tutta l’area montana di confine rendeva la situazione ancora più tesa. E per tentare di sciogliere quella tensione il tenente aveva avuto la bella idea di mandare al muro tre malcapitati. Il commissario sbuffò, mentre si arrovellava tra i pensieri, facendo scivolare le gambe sotto il tavolo.
Non aveva fame. Poi si concentrò sul profumo dei salumi e tracannò un mezzo bicchiere di rosso.
L’unica traccia da seguire era quella della fabbrica.
Ormai lo sapevano tutti che proprio da lì erano partite le prime formazioni organizzate di partigiani e che all’interno dell’acciaieria si prendevano decisioni importanti. Anche di tipo militare. Molti operai stavano in fabbrica di giorno e in montagna di notte.
Dovette aspettare fino alle tre prima di poter incontrare qualche faccia conosciuta.
Uno sciame nero di biciclette uscì cigolando dal cancello una decina di minuti dopo che la sirena aveva indicato il cambio con il secondo turno.
Bloccò per primo Romualdo Grassi.
“Avete bisogno di me, commissario.”
Grassi non scese nemmeno dalla bicicletta. Piantò i piedi per terra e distese le braccia sul manubrio. Il volto giovane e scavato in mille segni lasciati dagli anni dell’adolescenza si illuminò nel guardare il questurino.
“Non ho bisogno di te, Grassi. Ho bisogno del partigiano Tom.”
L’altro rise. Approfittò di quel gesto per ruotare la testa all’indietro. E vide che un gruppetto di operai si era fermato alle sue spalle, a pochi metri di distanza. Anche Quirico lo notò. Ma rimase impassibile, mani dietro la schiena e il robusto torace in bella vista.
“Non lo conosco questo Tom, non so proprio chi sia.”
“Strano che tu non lo conosca. In giro si dice che vi frequentate così tanto da riuscire ad essere quasi la stessa persona.”
Tom smorzò il sorriso. Tirò fuori un pacchetto di Alfa e ne accese una, strappando lo zolfo del fiammifero sulla cucitura dei grossi scarponi di cuoio.
“Non so chi è che può dire certe cose…”
“Stammi a sentire, – lo interruppe Quirico con la sua voce roca – non sto cercando guai per nessuno, voglio solo salvare la pelle a quei tre che devono essere fucilati domani.”
“L’ho sentito anch’io. Ma non so che farci.”
“Dimmi chi è stato a sparare al tenente e loro sono salvi.”
Grassi rise forte. Poi tossì strozzato dal fumo della sigaretta e da un attacco di catarro.
“Statemi a sentire commissario – disse quando la crisi cessò – Per i tedeschi e i fascisti qui è solo più questione di ore. Una decina di giorni al massimo e questa zona verrà liberata dalla feccia dell’Europa. Perciò nessuno aveva interesse a sparare al vostro tenente e a mettere a rischio di rappresaglie la gente in città.”
“Vuoi dirmi che voialtri non c’entrate niente?”
“Voglio dire che la Storia, quella con la esse maiuscola, ha già incominciato a guardare avanti, caro commissario. E Schroth pagherà anche per la vita di questi tre.”
“Non mi interessano lezioni di storia. Io voglio che quei tre chiusi in galera non vengano ammazzati come cani. Di tutto il resto non ne voglio sapere niente”
“Questo lo può decidere solo il bel tenentino… e adesso se mi permettete.”
Riavviò la bicicletta con una pedalata. Fece alcuni metri, poi curvò a semicerchio e tornò indietro.
“Commissario, – urlò sollevandosi sul sellino e drizzando la schiena – i partigiani non c’entrano un bel niente con questa storia. E ricordatevi bene che è la prima volta che il Romualdo, qua, di fronte a voi, guardandovi dritto dritto negli occhi, dice la verità ad un questurino.”
A Quirico piaceva ascoltare il respiro di sua moglie. La donna dormiva sulla destra di quel grande letto di noce con la testiera tutta lavorata e passava la notte intera appoggiata su di un fianco. Lui si svegliava sempre per primo e godeva di quel respiro tiepido, regolare. Gli dava serenità. Lo rassicurava anche quel corpo grande, quel tepore che arrivava dalla sua destra come un’onda invisibile a comunicargli che quella presenza era lì per lui, immutata negli anni. Dodici, tutti passati insieme, senza mai grande passione ma con molto rispetto l’uno per l’altra. Lui amava quegli attimi silenziosi del mattino, assaporava quella punta di tristezza con cui guardava quel donnone di dieci anni più giovane stesa accanto, con i capelli schiacciati e la faccia seria di chi già deve dedicarsi alle cose importanti della famiglia. Ma subito dopo si addolciva lo spirito. Era sua moglie. Poi si alzava, sempre dopo di lei, e la giornata incominciava.
Quel 30 di agosto però la giornata cominciava in maniera diversa dal solito. Il commissario Quirico pensava a tutto ciò mandando giù una tazza bollente di caffè d’orzo con una fetta di pane.
Sua moglie aveva deciso di partire. Ne aveva parlato con lui in maniera molto diretta. Secondo Lena, era meglio accettare l’invito di sua sorella ad andare da lei in Svizzera, visto l’aria che girava da quelle parti. E bisognava farlo soprattutto per i bambini. Magari non per molto, dipendeva dalla piega che prendevano gli eventi. Ma senz’altro era meglio partire subito. Anche per lui era giusto così. L’aveva ascoltata e non poteva certo contraddirla. Lei, dalla sua parte, aveva la serietà del buon senso.
A lui dispiaceva restare solo, coricarsi in un letto senza la moglie, sgambettare tra le lenzuola e non trovare i piedi di Lena. Ma non lo diede a capire.
Era andato a Milano apposta, due giorni prima. Si era fatto preparare un permesso di espatrio in poche ore, grazie alle sue conoscenze. Il momento della separazione era vicino, e quella stessa mattina, dopo i giorni dedicati ai preparativi ed alle raccomandazioni reciproche, Quirico accompagnò moglie e figli a prendere il treno.
Alle otto e trenta in punto, il treno sbuffò una montagna di vapore come saluto al commissario, che rimase immobile avvolto in quella nube ad osservare la vita attorno a lui più opaca e sfocata di quanto non lo fosse già.
La bicicletta ondeggiò leggermente, un energico colpo di contropedale bloccò le ruote poi il commissario Quirico mise i piedi a terra. Scese, sollevò la bici per il sellino, e la spinse sul marciapiede. Appoggiandola al muro notò una macchia di unto sui calzoni. Colpa di quel rottame, pensò. Non la usava mai per servizio. Ma in quei giorni gli dava una maggior sicurezza, come se gli permettesse di correre, magari all’improvviso, nel caso di bisogno.
Quasi vent’anni da questurino, e non sono pochi, diceva ai suoi colleghi, con la convinzione di sapere da che parte sistemare le cose giuste e quelle sbagliate. Adesso non più.
E non lo diceva a nessuno che in quegli ultimi anni, facendo il suo mestiere, aveva dovuto fare prima i conti con il disprezzo di chi lo giudicava il cane da guardia del regime, poi con il suo lavoro vero e proprio. E che razza di lavoro era? Se lo domandava spesso: delinquenti di piccolo calibro, poveracci che rubavano qualche bicicletta o un paio di galline, macellazioni abusive che infrangevano le regole dell’annonaria, ubriachi, clandestini diretti in Svizzera, e quelli che insultavano il Duce. Adesso poi c’era quella squadra di partigiani, sabotatori e comunisti, che non lo faceva più dormire di notte.
Si diede un colpetto con le mani sul vestito grigio come a voler togliere le pieghe e la sgradevole macchia, e suonò al portone dell’avvocato Giovanni Amodei.
Quirico aveva pensato a lui, la sera prima.
Amodei era da sempre un uomo di legge, cresciuto in una famiglia di legge ed abitava in una delle case più antiche della città, in mezzo a libri di legge. Vedovo e solo. Ma oltre ad essere riconosciuto da tutti come un uomo di grande cultura ed intelletto, conosceva bene le regole della politica. In più si mormorava che fosse proprio lui uno dei consiglieri del movimento partigiano.
Quirico lo guardò con rispetto, appena si trovò seduto di fronte a lui, e, sempre con il dovuto riguardo lo mise al corrente dei fatti e dei suoi dubbi.
L’avvocato gli confermò la versione del Grassi.
“Non esistono le condizioni politiche, eccetera eccetera…”
Il commissario gli ribadì che i motivi di natura politica a lui non interessavano. Non gli competeva fare riflessioni né sulla politica, né di strategia militare.
Confessò all’avvocato di avere solo fretta, e ne aveva anche molta. A lui interessava la verità, l’oggettività dei fatti, utili in quel momento per salvare tre persone innocenti.
Quirico credeva all’avvocato. E glielo disse. Gli era bastata quella sua semplice affermazione detta con uno sguardo severo, uno sguardo antico da uomo di grande forza morale e intellettuale. Quirico si poteva fidare.
E quando il commissario gli aveva esposto i suoi dubbi sul tipo di arma usata nell’attentato, Amodei rise e scrollò la testa.
“Forse per le vostre indagini dovete cambiare rotta. Se tre persone non stessero rischiando la vita per tutto questo, troverei la situazione molto divertente.”
Poi bevvero. L’avvocato fece portare una bottiglia di liquore Strega, e una brocca d’acqua fredda per allungarlo. Versando l’acqua nel bicchiere del commissario, gli domandò a bruciapelo, con la voce velata da una punta di tenerezza:
“Ma voi, commissario, da che parte state?”
Quirico drizzò la testa.
“Dalla parte dello stato.”
“Cioè dei fascisti?”
“No, solo dello stato, caro avvocato. Un anno fa siamo rotolati nel caos, senza nessuno che comandava, che organizzava, nel bel mezzo di una guerra, con un sacco di gente che aveva addosso un’arma e senza sapere dove andare. Da allora ognuno spara a qualcun altro, e ognuno è convinto di avere la verità più degli altri.”
“Allora diventa necessario scegliere, o no?”
“Io ho scelto. Ho scelto di non lasciare andare tutto allo sbando, c’è bisogno di mantenere in piedi l’organizzazione della nostra società, per la gente di tutti i giorni che vive e lavora, e che non sa neanche che l’Italia oggi è divisa in due. Pensi che dove sono nato io ci sono gli americani e dicono che l’Italia è libera, qui al nord ci sono i tedeschi e si pensa che siamo occupati dal nemico. Io sono un questurino e nient’altro, e ho deciso di fare il mio lavoro rispettando le regole di questo stato. Quando le regole saranno altre mi adeguerò.”
Poi si alzò, posò il bicchiere sul tavolino e ringraziò l’avvocato con una stretta di mano. L’altro rimase seduto a guardare il suo ospite dirigersi verso l’uscita.
(continua)