Senza lasciarsi prendere dalla solita retorica che sta ormai inquinando il valore autentico della nostra memoria, è però giusto ricordare che se il mese d’agosto è il periodo per antonomasia dedicato a ferie e riposo, è anche vero che in altri momenti dello scorso secolo ha rappresentato giorni di dolore. La Val d’Ossola (che mi ha generosamente accolto per ventidue anni) raccontata in questo mio Nebbie d’agosto è un riferimento geografico importante anche se la ricostruzione narrativa dei luoghi è a tratti frutto di fantasia.
Si tratta di un lungo racconto (presentato in cinque puntate sulle pagine letterarie di Allibri), dove ho voluto rievocare il clima di un periodo storico anche per conservare, per quanto possibile, la memoria di un secolo attraverso vicende a noi ancora vicine. Allo stesso tempo come omaggio a chi è caduto per mano della barbarie nazista.
Il 28 agosto 1944 (dieci giorni prima della storica nascita della Repubblica Partigiana dell’Ossola durata quaranta giorni) tre detenuti non appartenenti al movimento resistenziale vennero fucilati nel cortile interno del carcere di Domodossola da un picchetto del locale presidio tedesco, per rappresaglia al ferimento del comandante, il tenente Alfred Klebs e come risposta all’aumentata attività partigiana in Ossola.
Fatti reali e fantasia si intrecciano, ma il dolore non si annulla.
di Angelo Marenzana
Prima parte
Domodossola, agosto 1944
La camionetta avanzava traballando lungo il rettilineo che da sud porta in città. Dietro altri due camion. Il primo scoperto carico di soldati e l’altro telonato a chiudere la colonna.
Nando era in mezzo alla strada quando di colpo si trovò di fronte il muso basso e squadrato del veicolo militare che aveva appena superato la curva. La colonna distava da lui poco più di una cinquantina di metri, e quello spazio veniva divorato lentamente, con le pesanti vetture che rimbalzavano sul selciato sconnesso e gemevano tra il nero del fumo di scappamento e le volute di nebbia che il calore del primo pomeriggio di agosto sollevava da terra.
“Tedeschi” pensò Nando, e si mosse come punto da un calabrone, sgusciò di lato senza nient’altro in mente. Non scappò per paura, non aveva nulla da nascondere ai soldati. Sapeva solo che era meglio non farsi vedere, punto e basta. Il suo fiuto gli suggeriva di non fermarsi a riflettere ma di sparire al più presto per evitare guai con i tedeschi.
Il portone spalancato di fronte a Nando era per lui la sola via di fuga sotto mano in quel momento. Conosceva bene quel posto e conosceva meglio ancora il fornaio che ci lavorava. Di tanto in tanto, di notte, andava a dargli una mano in cambio di una forma di pane nero.
Entrò di corsa nell’androne, seguendo solo l’istinto, senza più guardarsi attorno. Dal cortile interno puntò direttamente verso il sottoscala più vicino. Prese ad armeggiare con mano sudaticcia sul chiavistello della porta delle cantine, all’ombra della lunga ringhiera che troneggiava sul cortile ad un’altezza di tre metri.
Leccò via una goccia di sudore che gli scendeva sulle labbra. Il palmo di una mano aderiva al legno scuro e l’altra stringeva il catenaccio mezzo arrugginito che non voleva saperne di scorrere via.
Poi il rumore di passi. Gli rimbombarono improvvisamente nella testa per quel loro battere ritmico sull’acciottolato. Distinse anche delle grida di sottofondo, voci che gli giunsero sempre più forti, acute, metalliche. Riecheggiavano sotto l’androne accelerando sempre di più i battiti del suo cuore.
Il respiro era affannoso e l’aria umida di quel posto gli si bloccava in gola. In più il catenaccio era sempre più viscido, quasi molle. La presa gli sfuggì un paio di volte ed il dorso della mano si graffiò contro il portale.
Forse fu la fitta di dolore prodotta dalle piccole schegge a smorzare l’ansia. Gli rimase però un senso di vuoto e di gelo nello stomaco.
Il ragazzo si voltò verso quei suoni rauchi giunti ormai alle sue spalle, verso quelle voci che avevano invaso tutto lo spazio, come l’onda lenta di un fiume che straripa. Gli occhi di Nando, già abituati alla penombra del sottoscala, furono invasi dalla luce foschiosa del pomeriggio. Li strinse d’istinto, a sufficienza per vedere il sole di agosto riflettersi sugli elmetti dei due tedeschi immobili di fronte a lui. Leggere volute di pulviscolo svolazzavano sopra il metallo coperto dalla polvere della strada.
Uno era in ginocchio e l’altro in piedi, con le canne dei fucili puntate contro di lui. Nando appoggiò le palme delle mani dietro la schiena, contro il portale che gli aveva negato una via di fuga. Poi le sollevò al cielo piegandosi leggermente sulle ginocchia.
Il terzo militare arrivò con calma, passando nello stretto corridoio lasciato dai due soldati, senza elmetto e con la pistola in mano.
Nando cercò di parlare, di dire la sua con la voce impastata. Non controllava il tremore, con il sudore che gli correva lungo la schiena appiccicandogli la camicia addosso. Protese le mani in avanti quasi a costruire un’invisibile barriera contro il suo inseguitore e si accartocciò con il resto del corpo contro la porta. L’ufficiale lo strattonò con forza per un braccio riportandolo in piedi. Sempre più rigido Nando incominciò ad articolare dei monosillabi senza senso, poi tacque definitivamente quando sentì affondare il calcio di un fucile nel suo fianco. Si piegò di lato. Il colpo gli svuotò i polmoni. Il dolore anche. Si ritrovò senza più aria per potersi lamentare e col cuore che si ingigantiva come un palloncino gonfiato all’estremo. Poi i palpiti gli esplosero nel cervello, con la stessa forza sorda e ritmica della grancassa della banda paesana. Si lasciò trascinare per le braccia fuori dal cortile, strascicando una gamba dolorante e saltellando con l’altra per non cadere a terra.
Un sibilo leggero aveva preso il posto del suo respiro.
Il commissario Gregorio Quirico sedeva sul bordo del letto con il palmo delle mani appoggiato sulle ginocchia, nella stessa posizione di ogni mattina. Aveva sempre avuto l’abitudine di stare così qualche minuto prima di prendere confidenza con il risveglio, nonostante pensasse che quel modo di fare non fosse granché dignitoso per un funzionario dello stato. Vestiva solo la canottiera e le mutande, quelle di cotone bianche che gli aveva cucito sua madre prima del matrimonio. Erano di un tessuto di qualità, ancora in forma, nonostante gli anni, appena meno ruvido di allora. Si guardava attorno con occhi svogliati, ruotando leggermente il collo incassato tra le spalle e con la testa rivolta verso l’alto.
Le persiane erano chiuse e i mobili in noce rendevano più soffocante la penombra della stanza. L’aria ristagnava nel caldo della notte tra l’odore molle delle ore di sonno e per quella sigaretta che il commissario si ostinava a fumare sempre, tutte le sere, puntuale, prima di addormentarsi, nonostante le lamentele di sua moglie Lena. E lui l’accusava di non voler mai tenere aperte le finestre quando si dormiva. La moglie temeva un’improvvisa corrente, e diceva che la temperatura poteva anche cambiare, così, di punto in bianco, e che del clima di quel paese non ci si poteva mai fidare. E poi prendere un colpo di freddo poteva essere pericoloso per lui e la sua cervicale. Dopo toccava a lei fargli i massaggi e le applicazioni con il lino e la canfora, e digerirsi tutte le sue lamentele.
Sua moglie era già in cucina. Quirico sentiva il tramestio delle stoviglie che la donna stava sistemando per la colazione. Si decise ad alzarsi. Si infilò i pantaloni senza allacciarli, con i capi della cintura di cuoio penzolanti. Si diresse in cucina, vide ancora i figli accucciati sui letti sistemati d’angolo, ai lati della finestra che dava sulla centrale piazza del mercato. Si avvolse un asciugamano attorno alla vita, ne fissò il bordo sotto l’elastico delle mutande, e si preparò ad insaponarsi la faccia per tagliarsi la barba. Lena gli aveva preparato un po’ di acqua tiepida nella brocca smaltata appoggiata sul piano della stufa e, attaccato al muro, un piccolo specchio rimandava il volto cupo del marito.
Si chiamava Gregorio Quirico, era nato a Caivano in provincia di Napoli, il 25 luglio del 1900 e comandava da sei anni il commissariato di città e di frontiera, presso gli uffici di Pubblica Sicurezza, dopo un lungo periodo di servizio presso la questura di Firenze. Anche suo padre faceva il questurino e aveva girato mezza Italia al servizio dello stato, e Quirico si era dimenticato quasi tutto della città dove suo padre aveva voluto farlo nascere per rispetto alla famiglia. Neanche l’accento di casa gli era rimasto come ricordo della sua terra.
Quella stessa mattina il brigadiere Caviglia passò a prenderlo a casa. Il commissario gli aprì la porta con la barba mezza da fare, e un saluto roco.
Un’ondata d’aria fresca salì dalle scale e lo investì. Rimase un attimo con il naso pieno dell’odore penetrante delle cipolle stese sugli scalini, poi richiuse, e fece accomodare il brigadiere. Quest’ultimo salutò con deferenza la signora Lena e rimase in piedi, rigido, mani dietro la schiena, mentre la donna andava a tirare una tenda a fiori che divideva la cucina dalla zona dei bambini.
“Così dormono ancora un po’” commentò sorridendo.
“Fa caldo, caro Caviglia, già al mattino presto. E non startene lì impalato, non sei mica in questura” lo apostrofò Quirico.
“Allora se permette, mi accomodo” e prese una sedia per sé.
“Tu non conosci ancora il vero caldo, tu arrivi da Asti, il paese delle nebbie. Io invece so cos’è il caldo, quello che ti scalda la pelle e che ti strangola il respiro. Ma insieme al caldo ci vuole pure il mare. E qui il mare non c’è, e allora si soffre di più.”
“Ma cosa vuoi saperne tu di mare. – lo interruppe la moglie – non lo vedi da talmente tanto tempo che non sai neppure più com’è fatto.”
Quirico si voltò e la guardò di sbieco, con il rasoio a mezz’aria e storcendo la parte della faccia ancora insaponata. Senza replicare.
(continua)