Trarre insegnamento da ciò che è stato.
Questo è quanto si predica nelle scuole, nelle chiese, nelle famiglie più oculate.
Poi un giorno prendi un cantautore – non uno qualsiasi – e ti accorgi che mezzo secolo fa c’eravamo già noi, così moderni e avveduti, così attuali e compassati come chi ha visto tutto.
In realtà chi oggi ci vede da fuori si rende conto che siamo fermi a mezzo secolo prima.
Leggo e rileggo le parole che ci ha lasciato Lucio Dalla; mi fanno proprio quell’effetto: di essere proiettati indietro nel tempo, di essere cresciuti nel corpo indossando però gli stessi abiti, non abbiamo avuto il tempo di cambiarci.
Eppure in cinquant’anni se ne fanno di cose, si può addirittura arrivare ad imbastire la Sagrada Familia.
In quei testi si parla di Anna e Marco, due ragazzi diversi fra loro, che nonostante la difficoltà di far incontrare le loro storie se ne vanno insieme senza clamori, tenendosi per mano.
Si parla di un viaggio promesso da una ragazza in vetrina, di un amore per lei che sboccia virtuale e che tale rimane poiché l’alternativa è il sogno di staccarla dal muro e portarla via.
Si parla di una Repubblica delle Banane dove gli americani espatriati nostalgicamente si trascinano nei vari locali spendendo i loro illeciti guadagni in solitudine, accompagnati da donnine e bicchieri di rum.
Si parla dell’anno che verrà, dell’auspicio che sarà migliore – lo dice anche la televisione – e della certezza che i miracoli finalmente si faranno. Certi che l’anno finirà e saremo pronti a sperare in quello venturo.
Leggo e rileggo le parole di quell’uomo venuto dal mare.
Il tempo è lì, fermo e sempre uguale a se stesso.
Noi lo attraversiamo convinti di procedere senza renderci conto che il passato è oggi.