Le note d’organo Hammond uscirono quasi lancinanti dal diffusore a soffitto e lui smise di concentrarsi sullo schermo del computer ancora immacolato.
Si fermò.
Aveva diciott’anni quando l’aveva ascoltata per la prima volta. Come chiunque, a patto di non avere vissuto per mezzo secolo in una cupola insonorizzata e avere scacciato dalla propria vita la musica pop, l’avrebbe udita ancora centinaia di volte.
Quasi sempre per caso.
Un imprevisto che mai sarebbe accaduto a un cultore dei Procol Harum.
Ma lui non lo era.
E il caso lo aveva scelto, appunto, centinaia di altre volte.
Sempre si fermava, si bloccava. Qualsiasi attività entrava in stand-by.
Ascoltava. La mente andava a un altro tempo, a un altro lui. Un’era sepolta sulla quale era recente costume sputare sentenze e veleno. Di solito chi si abbandonava ai giudizi più feroci neppure era nato in quegli anni. L’ignoranza e l’arroganza, tipiche coordinate della contemporaneità, avevano reso possibile il massacro della memoria.
Ma non si sarebbe mai più visto, ascoltato e assaporato nulla di tanto bello. Ogni volta che partiva quel riff di organo e lui si trovava in zona, impossibilitato a sottrarvisi, il pensiero prendeva il sopravvento.
Tornava.
A mezzo secolo prima.
Lei era ancora viva.
La musica smise di colpo.
Lui tornò all’oggi con stupore.
La luce era mancata d’improvviso. Qua e là, all’esterno, erano partite le sirene dei vari antifurto casalinghi. Lui non poté non apprezzare l’involontario umorismo della situazione. La versione italiana della canzone appena troncata dal blackout s’intitolava Senza luce. Ben più che evocativa, a questo punto.
Scostò all’indietro la poltrona e si alzò in piedi. Raggiunse la vetrata e gettò lo sguardo giù in strada.
La situazione appariva strana. La gente camminava ma i passi si mostravano incerti, titubanti. Chi si guardava l’un con l’altro, chi puntava in alto e chi agitava le mani nelle classiche mimiche a indicare assenza di spiegazioni. Si trattava solo di un’interruzione di energia, ma il fenomeno era men che raro a sua memoria.
Sentì bussare alla porta.
Si voltò e disse «Avanti».
Apparve Rossella, giovane praticante dello studio dirimpettaio. Reggeva un piccolo vassoio con sopra due bicchieri di plastica provenienti dalla macchina del caffè.
«Usciti pochi secondi prima che mancasse la luce» declamò con la solita energia mattutina. «Vuoi approfittare?»
Sempre molto carina e disponibile. Lui assentì con un sorriso. A distanza generazionale Rossella poteva quasi essere sua nipote. Ma le idee possiedono una vita propria e vagano nel cervello nutrendosi di quel che trovano.
Ad esempio, le asettiche location di lavoro. Fredde, metalliche, prevalenti colori grigi. Lui le trovava erotiche. A volte si sorprendeva a fantasticare proprio su Rossella, stesa sopra un lettino intenta a sbottonare gonna e camicetta. Non se ne vergognava ma si sforzava subito di pensare ad altro.
Prese il piccolo bicchiere e mimò scherzosamente un brindisi alla caffeina con la ragazza. Lei posò il vassoio e stette al gioco.
«Riguarda solo noi? Il quartiere? Tutta la città?»
Si trattava di una domanda sciocca, lui se ne rendeva conto. Dall’ambulatorio all’ultimo piano si potevano solo vedere altri palazzi come il loro perlopiù adibiti ad assembramenti di uffici, palestre e attività commerciali. Tutti in quel momento senza luce.
«Chi lo sa?» rispose la ragazza. «Se credi, chiamo il servizio elettrico. Presumo che i cellulari funzionino.»
«Vediamo.»
Tornò alla scrivania e agguantò il suo Huawei. Solo per constatare l’assenza di campo.
«Presumi male, Rossella.»
«Oh.»
Lei schizzò fuori e tornò al proprio ufficio. Segnale assente anche nel suo cellulare. Uscì e rientrò da lui.
«Sento gli altri colleghi?»
«Per quel che costa… Intanto mi sa che dobbiamo inventarci qualcosa per passare il tempo. Senza corrente non si lavora.»
Mattia, barbuto quarantenne preposto alle cronache sportive che occupava l’altro ufficio del piano, fece capolino borbottando ovvietà:
«Non c’è campo e non c’è luce. Chi di dovere poteva ben spendere qualche euro in un piccolo gruppo elettrogeno d’emergenza. Per fortuna a quest’ora non abbiamo pazienti.»
«È già molto se abbiamo le luci automatiche di necessità» replicò Rossella. «Durano mezz’ora ma ci sono.»
«Hai un tablet, Mattia» ricordò lui. «Se hai urgenti ricette da scrivere, usalo.»
«Non mi sento lucido se mi ritrovo bloccato all’ultimo piano. Mettermi a scrivere è l’ultima cosa che può venirmi in mente.»
«Perché bloccato?» chiese la ragazza.
«Chi non ha speso qualche euro in più per un gruppo elettrogeno non si è certo premurato dei sistemi di sblocco delle porte scorrevoli.»
«Ma è assurdo. Non ci sono le batterie a ricarica?» strepitò lui. «È un obbligo di legge.»
Si misurarono vicendevolmente in accorate proteste contro il nulla ancora per un paio di minuti. Rossella e Mattia se ne tornarono nei loro uffici. Lui rimase solo.
Si trattava di ua piccolo studio privato. Cinque medici. Tre femmine, due maschi. Quella mattina erano soltanto in tre. Una ragazza assente per malattia, l’altra per ferie da recuperare.
Un po’ seccato per il contrattempo che si protraeva oltre il dovuto, lui tornò alla vetrata e guardò di sotto.
La stessa scena di prima. Molto più di un déjà vu. I soggetti gli sembrarono proprio gli stessi. Camminavano con lentezza, un passo esitante. Sguardi allarmati verso l’altro o altrove. Braccia e mani che si dimenavano. Le stesse persone? Ma non era possibile. In verità dall’alto sembrano tutti uguali.
Andò a sedersi alla scrivania.
Non fumava e decise di mettersi in bocca una gomma all’anice. E di lasciare libera la mente.
Ma in quel momento la musica riprese. Con lei il concerto metropolitano di varie suonerie metalliche, jingle di cellulari, ascensori che riprendevano le corse.
E ora il telefono diretto che squillava.
Lui alzò la cornetta, pervaso da una sottile inquietudine. Mormorò un arrochito “Pronto”. Dall’altra parte la voce di una giovane ragazza scandì il suo nome.
Non era possibile. Lei oggi non poteva essere più viva.
Il tempo, fratturatosi poco prima a seguito del blackout, si rinsaldò e un’ombra pallida, quasi bianca, si distese sopra di lui mentre Gary Brooker dalla filodiffusione cantava: She said, ‘There is no reason and the truth is plain to see’.