Enrico e Dino, uomini verticali [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

A gennaio del 1978, in occasione del sorteggio dei gironi, il nostro C.T. Enzo Bearzot va a cena con due campioni del luogo: uno è Nestor Rossi, colonna del River Plate del dopoguerra, l’altro Omar Sivori. El Cabezón, anche lui cresciuto nel River, aveva conquistato la gloria calcistica da noi: arrivò giovanissimo per vestire la maglia della Juventus (e poi del Napoli), insieme a Antonio Valentin Angelillo (preso dal Boca e finito all’Inter) e a Humberto Maschio, quello che in Italia avrà meno successo. I tre avevano dominato la Coppa America del 1957 guadagnandosi il soprannome di “angeli dalla faccia sporca” (los angeles con la cara sucia), poi pure la nomea di traditori poiché accettarono di essere naturalizzati e di giocare con la nazionale italiana. Con loro quella sera estiva (dell’emisfero australe) c’è il giornalista Gian Paolo Ormezzano, che dirigeva Tuttosport negli anni d’oro del quotidiano sportivo torinese.

Tornando all’auto se la vedono brutta: vengono accerchiati da un gruppo di giovani uomini armati di mitra. Controlli, perquisizioni e domande sul perché abbiano parcheggiato proprio lì. Si tolgono dagli impicci a fatica quando i due vecchi campioni argentini dicono ai soldati di chiedere di Nestor Rossi e di Sivori ai loro padri. Li lasciano andare intimandogli di non parlare dell’accaduto. Avevano parcheggiato inavvertitamente sotto la casa di Galtieri, il numero due dei generali al potere, “potevano uccidervi subito e gettarvi nel fiume” dirà un collega argentino a Ormezzano.

*****

Come detto, la maggior parte dei crimini della Junta nei primi anni sono invisibili. L’ambasciatore italiano a Buenos Aires, Enrico Carrara, amico intimo dei militari e informato in anticipo del golpe del 24 marzo 1976, ha provveduto sin dal primo giorno a blindare le porte dell’ambasciata (scrive Alec Cordolcini in ‘Pallone desaparecito’): non vuole che si ripeta quello che è accaduto tre anni prima a Santiago del Cile, dove grazie al coraggio di due diplomatici allora giovani – Roberto Toscano e Tommaso de Vergottini – l’ambasciata italiana accolse migliaia di profughi.

In questo bel clima, per fortuna, un giovane console destinato nel 1972 a Buenos Aires, e distaccato tra il ‘73 e il ‘76 in Cile dove ha avuto modo di vedere i metodi di Pinochet, trova modo di reagire alla connivenza dell’ambasciatore. Lo fa di nascosto, anche grazie all’aiuto del giornalista del Corriere della Sera Gian Giacomo Foà e del sindacalista Filippo Di Benedetto, antico emigrato calabrese.

Foà nel 1977 subisce pure un tentativo di sequestro, dopo il quale deve lasciare l’Argentina, anche perché il suo giornale in quel periodo non lo sostiene, è infatti il Corriere di Tassan Din e del giovane, ingenuo (a dir poco) Angelo Rizzoli, quello conquistato dalla loggia massonica P2. Loggia che ha legami strettissimi coi generali. Fu infatti proprio un detenuto all’ESMA a fabbricare, sotto la minaccia dei suoi aguzzini, alcuni passaporti falsi per Licio Gelli. Si chiama Victor Basterra, faceva l’operaio grafico e grazie alla sua abilità ebbe modo di usare una macchina fotografica, con cui di nascosto riprese molti dei giovani desaparecidos che transitarono nel mattatoio della scuola di marina, consegnandoci così una delle più importanti testimonianze visive dei crimini.

Il giovane console che si ribellò alla disciplina dell’ambasciata e, anche correndo enormi rischi personali riuscì a salvare molte vittime della dittatura, non solo italiane, si chiama Enrico Calamai. Lo definiscono lo Schindler di Buenos Aires, anche se la sua storia probabilmente ricorda più quella di Giorgio Perlasca. Arrivò a fabbricare documenti falsi, nascose ragazzi in una stanza segreta e sovente accompagnò in piena notte all’aeroporto i ricercati guidando la propria automobile. Salvò più di quattrocento persone. A un certo punto pur di rimuoverlo lo promossero mandandolo in Nepal. “A quei tempi non esisteva il governo italiano in Argentina, c’era Enrico Calamai: e chi non lo trovava era perduto” dirà un sociologo argentino salvato proprio dal console.

*****

Nel tradizionale discorso del Presidente della Repubblica, alla fine del 1981, Sandro Pertini riuscì una volta di più a sorprendere tutti quando disse di avere incontrato diverse volte, di nascosto, le madri di Plaza de Mayo, e denunciò pubblicamente quanto stava succedendo nel paese sudamericano, primo esponente politico occidentale di tale livello a farlo.

Una delle immagini che più legano Pertini al nostro sport è la vittoria ai mondiali di Spagna e la successiva sfida a scopone sull’aereo che riportava i campioni a casa, giocata (e persa, con successiva leggendaria sfuriata) in coppia con Dino Zoff.

Zoff, le cui mani sulla coppa sono state immortalate da Renato Guttuso.

Zoff, il portiere che ha esordito in nazionale ai tempi di Burgnich, Facchetti, Mazzola e Rivera e ha finito la carriera con ragazzi di quindici anni più giovani come Cabrini e Pablito Rossi. Sempre, dalla prima all’ultima partita con una classe che ne fa uno dei più forti calciatori italiani di sempre, e con una serietà esemplare.

Eppure da quel mondiale di Argentina 1978 Dino tornò tra feroci polemiche. Vecchio. Miope: Gianni Brera gli consigliò una bella visita dall’oculista per i gol da lontano incassati nelle partite contro Olanda e Brasile.

Le polemiche feroci iniziarono dopo la nostra sconfitta contro l’Olanda nella gara che decise l’accesso alla finale. Segnammo prima noi, autorete di Brandts per anticipare Bettega. Poi i tiracci dello stesso Brandts, che a rivederlo mi sembra imparabile, e del vecchio Arie Haan. Palloni che arrivavano da lontanissimo, “da quaranta metri” disse Nando Martellini. La verità è che non ne avevamo più, avevamo raggiunto il nostro massimo contro i padroni di casa poi, come sovente succede alle squadre che sono andate oltre i propri limiti, ci spegnemmo.

Per ulteriormente accusare il vecchio Dino, anche nella finale terzo e quarto posto Nelinho e Dirceu segnarono con tiri da lontano, e fu un’altra sconfitta 2-1.

Il più veemente a difendere il portiere fu Enzo Bearzot che, con Dino Zoff così come con Enrico Calamai aveva di certo una cosa in comune: essere uomini verticali.

*****

Le puntate precedenti:

Ponti di memoria: i mondiali di Argentina ’78

La Scozia vincerà la coppa del mondo

Apodos: il coniglio e il lupo

 

La prossima settimana l’ultima parte:

Sangue sul palo