ILVA: non solo Taranto, ma Genova, Novi e il futuro della siderurgia italiana [Piemonte Economy]

di Cristina Bargero

 

 

Il 30 giugno potrebbe essere una data dirimente per il destino di ILVA, per due circostante concomitanti: l’esaurimento delle risorse disponibili in capo alla gestione commissariale per pagare stipendi, forniture, manutenzioni e acquisti e il termine ultimo per firmare il contratto di aggiudicazione – in presenza o meno di accordo con i sindacati,- da parte di AM Investco, la joint venture composta per l’85% da Arcelor Mittal, colosso indiano dell’acciaio e per il 15% dal Gruppo Mercegaglia, che, a questo punto, potrebbe anche decidere di recedere.

Nel frattempo l’amministrazione straordinaria di Ilva perde 30 milioni di euro al mese, in un contesto in cui, alle frizioni sindacali, va ad aggiungersi un ulteriore fattore di incertezza politica legato al nuovo governo Cinque Stella-Lega: uno dei due contraenti il patto di governo si è dichiarato più volte favorevole alla chiusura. Qui le dichiarazioni di ieri di Beppe Grillo.

Ilva, che rimane ancora oggi la più grande acciaieria d’Europa, non è soltanto Taranto, la cui storia certo rappresenta uno dei punti bui dei rapporti tra ambiente e industria e a questo proposito il piano ambientale di Arcelor prevede oltre 1 miliardo di euro per la bonifica. Ilva è anche Genova e Novi Ligure, che non presentano criticità ambientali.

Lo stabilimento di Novi, acquisito dal Gruppo nel 1931, in seguito al tracollo finanziario della società Ferriere, produce perlopiù acciaio destinato al settore automotive. I coils giungono via mare da Taranto: una parte di essi è destinata alle linee di zincatura e banda stagnata di Cornigliano (che ha una capacità produttiva pari a 1,5 milioni di tonnellate), un’altra allo stabilimento piemontese, la cui capacità produttiva è di circa 2 milioni di tonnellate.

Chiudere Taranto avrebbe un effetto immediato anche nella nostra provincia, in termini di paralisi dello stabilimento, con un immediato blocco degli stipendi, perdite di posti di lavoro diretti (oggi gli occupati sono circa 800) e indiretti e gravi ripercussioni per le imprese dell’indotto.

Significherebbe perdere capacità produttiva, in attesa di decisioni relative al futuro della fabbrica di Novi Ligure che potrebbero dover richiedere mesi.

Oggi l’Italia è il secondo produttore europeo di acciaio dopo la Germania. Mentre Trump impone i dazi, l’Italia, invece di rafforzare il proprio peso anche a livello di politiche commerciali europee, rischia di perdere un pezzo importante di siderurgia, di mostrarsi un paese dove non vi è nessuna certezza giuridica per gli investitori e di correre verso una decrescita infelice.