Apodos: il coniglio e il lupo [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Con l’Argentina Bearzot fa giocare i titolari, facciamo una delle partite più belle di sempre ai mondiali, ci prendiamo le botte feroci dei Galvan e dei Gallego, e li battiamo con un gol di Bettega dopo un triangolo con Paolo Rossi da pagina 43 del manuale del calcio (per dirla alla Altafini).

L’Argentina la allena César Luis Menotti, uno di quegli uomini che le donne quando li guardano si fanno dei pensieri che poi si raccontano solo tra loro. Sigaretta sempre accesa, alto e affilato, sguardo che non gli sfuggì. Lo chiamano “el flaco”, il magro. Gli argentini hanno questa usanza meravigliosa, ogni giocatore ha un soprannome, gli “apodos” come si dice in castigliano, e glieli appioppano con una fantasia di solito soave, da “diez” (il dieci, “apodo” che danno a quelli coi piedi fini, l’ultimo finora Riquelme).

César Luis è nato a Rosario, dove puoi essere “leproso” o “canalla” altrimenti… ti conviene andartene altrove. I “leprosos” sono quelli del Newell’s Old Boys, i “canallas” i gialloblù del Rosario Central, e i soprannomi vengono da una vecchia storia di inizio secolo (l’altro) per una partita di beneficenza a beneficio del locale lebbrosario saltata per colpa del Central, pare (le canaglie, quindi).

Non scherzavo dicendo che ogni rosarino nasce tifoso di una delle due squadre, andate a vedervi il grande murale gialloblù che ritrae l’immagine (una delle icone del XX secolo) di un medico nato là, diventato famoso a Cuba e poi ucciso in Bolivia, che tutti conosciamo per il suo “apodo” Che.

Anche Menotti, lui pure comunista, cresce nel Rosario Central, prima di una carriera che lo porta anche a essere in squadra con Pelè al Santos, mentre inizia ad allenare nell’Huracan con cui vince subito il campionato, impresa notevolissima (diciamo tipo quella del Leicester un paio di anni fa) con un gruppo di giocatori che giocheranno anche i mondiali, quello del ‘74 e con lui quello del ‘78. Alfio Basile el coco, Héctor Baley el negro, René Houseman el loco, il pazzo, che come racconta il suo compagno di nazionale Luque “aveva una tecnica squisita ma era totalmente inaffidabile, in campo come fuori”.

Osvaldo Ardiles, el pitón, centrocampista che sotto i capelli imbrillantinati come un ballerino di tango ha talmente tanto fosforo che un altro suo “apodo” è el pensava.

E Jorge Carrascosa, terzino baffuto, il capitano e il cuore di quell’Huracan e di quella squadra nazionale che vincerà il Mondiale. Senza di lui. Perché lui un giorno dice semplicemente: “Io, il campionato del mondo non lo gioco”.

Jorge Carrascosa: el lobo, il lupo.

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Il mondiale lo giocò poi Alberto Tarantini, il coniglio. “Conejo” gli viene affibbiato da un suo compagno di squadra al Boca perché aveva un tic particolare; quello di arricciare il naso spessissimo. Tuttora è l’unico ad avere vinto un campionato mondiale senza giocare in un club. Aveva litigato col presidente del Boca Juniors, squadra di cui suo padre era tifosissimo, proprio per la proposta di rinnovo del contratto che gli fecero quando lui chiese un aiuto per le spese per il funerale del padre morto improvvisamente. Non stava giocando ma Menotti, dopo il rifiuto del capitano, si fidò del suo grande vigore fisico (e fece bene, perché “il coniglio” fu uno dei protagonisti).

Girano diverse storie sul suo essere oppositore del regime, la più nota è che abbia chiesto conto a Videla per amici spariti da un bar, anche se Pablo Llonto, scrittore attivista dei diritti umani è scettico: “anche la storia degli amici desaparecidos di Tarantini è falsa. Lui dice che era in un bar quando arrivò l’esercito e sequestrò varie persone, tra le quali i suoi amici. Quale bar? Chi erano queste persone? I nomi non li ha mai rivelati.”

La più divertente la racconta lui stesso, commentando una famosa foto in cui è nello spogliatoio in mutande al cospetto di Videla. Prima di dargli la mano mi sfregai abbondantemente (potete immaginare dove). Anche in questo caso non sappiamo se credergli, oggi Tarantini è un personaggio televisivo, dopo parecchie peripezie compresi processi per spaccio, risse e anche il carcere.

Invece Jorge Carrascosa el lobo per moltissimi anni non ha proprio parlato, ha fatto una rara eccezione con il bravissimo Massimo Calandri di Repubblica: «Fisicamente e dal punto di vista tecnico stavo benissimo: ma è dentro di te, che devi essere in forma. E quello che stava accadendo mi faceva stare male. Non avrei potuto giocare e divertirmi, non sarebbe stato coerente».

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Un acerrimo nemico del “flaco”, Carlos Bilardo, una volte disse: ‘io sono diventato campione del mondo in una democrazia, Menotti in una dittatura’. Credo che questo El Flaco non l’abbia mai digerito”.

A proposito di “apodos” anche quello di Bilardo, allenatore della vittoria al mondiale del 1986 è niente male: el narigon. Non lo traduco, guardate una sua foto di profilo.

In quella nazionale del 1978 c’erano altri “apodos” che vale la pena di citare.

Daniel Bertoni, che verrà a giocare da noi nella Fiorentina e nel Napoli, è Petete, personaggio animato amato dai bambini argentini.

Per tornare agli animali, José Daniel Valencia è la rana mentre Leopoldo Luque è el pulpo. La sua è una delle storie più interessanti, anche se ha momenti di grande tristezza perché suo fratello morì poco prima della partita contro la Francia, nel lungo viaggio in macchina da Mendoza, sei ore di strada per assistere alla partita. Luque in quella partita segnò il gol decisivo e si infortunò. Venne a sapere dell’incidente solamente al termine dell’incontro. Luque oggi “vive in una piccola casa alla periferia di Mendoza. Gestisce una scuola calcio ed è reduce da un’operazione al cuore. Conduce una vita sobria, appartata, apparentemente non dissimile a quella di milioni di anime sparse per tutto il globo. Con la piccola differenza che lui è stato campione del mondo”… Quando le madri di plaza de Mayo una decina di anni fa chiesero, ancora una volta, di incontrare i giocatori di quella nazionale, che fino ad allora non avevano mai avuto il coraggio di confrontare le madri che piangevano i figli mentre loro festeggiavano i gol, Leopoldo Luque ci andò, da solo, per primo.

Alcuni “apodos” sono più prevedibili. Mario Alberto Kempes, il capocannoniere di quel mondiale, è el matador mentre Daniel Alberto Passarella, che ereditò la fascia del capitano dal “lobo” Carrascosa è el Kaiser, sia per la guida della squadra, sia per il ruolo di libero con licenza di andare in attacco, proprio come l’originale Kaiser Franz Beckenbauer.

Il portiere di quella squadra doveva essere Hugo Gatti, un altro “loco”. Uno che giocò per più di un quarto di secolo, spesso prendendo l’iniziativa e andando avanti palla al piede (era anche noto per gli stop di petto). Segnargli rigori era impossibile. Gatti era pure reduce da un infortunio, e Menotti gli preferì Ubaldo Fillol, el pato, il papero.

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Anche il portiere del Perù, Ramón Quiroga, aveva un “apodo”. Per gli argentini è chupete, il succhiotto con cui facciamo stare calmi i neonati. Peraltro lui in Argentina c’è nato, prima di essere naturalizzato e di diventare il titolare della porta degli “incas”. Indovinate un po’… Già, anche lui è nato a Rosario, e dove altrimenti? Anche lui “canalla”, come il flaco Menotti, come Mario Alberto Kempes, che affronterà nella partita decisiva tra Argentina e Perù. Si gioca nello stadio Gigante de Arroyito, quello in cui gioca abitualmente proprio il Rosario Central.

Guarda te il destino.

Se l’albiceleste vincerà con almeno quattro gol di scarto si qualificherà in finale, altrimenti al Monumental a giocarsi la Coppa del Mondo sarebbero andati gli odiati brasiliani. Come sapete, el chupete raccoglierà sei volte il pallone in fondo alla rete, in quella che ancora viene chiamata la “marmellata peruviana”.

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Le puntate precedenti:

Ponti di memoria: i mondiali di Argentina ’78

La Scozia vincerà la coppa del mondo

 

La prossima settimana:

Enrico e Dino, uomini verticali