Ospite di questa settimana sulle pagine di Allibri è Matteo Severgnini, vecchio compagno d’avventure letterarie con cui ho condiviso le prime antologie insieme ai nomi emergenti del giallo italiano (Sospeso, 1993 – Penombra, 1994 entrambe pubblicate per il piccolo editore ossolano Casa Rosa). Severgnini vive sul lago d’Orta, a Omegna, e collabora con la Radio Televisione Svizzera Italiana. Per il cinema ha scritto e co-sceneggiato il docufilm poliziesco A Omegna non si beve più caffè (regia E. Bernasconi, Venturafilm). La donna della luna è il suo primo romanzo, dove presenta al pubblica la figura di Marco Tobia, un investigatore privato che vive in solitudine sulla minuscola Isola di San Giulio, in mezzo all’affascinante Lago d’Orta. Come un lupo solitario si è rifugiato nel silenzio e l’acqua lo protegge. Giorno dopo giorno deve combattere contro i sintomi della malattia che lo affligge, la sindrome di Tourette, che lo porta a limitare i rapporti con le persone. Giorno dopo giorno deve anche fare i conti con la propria infanzia, niente affatto serena, e i fantasmi del proprio passato da ispettore di Polizia.
Il silenzio si spezza e l’acqua del lago si increspa quando Tobia accetta l’incarico di indagare sul presunto suicidio del fratello di una donna enigmatica. Aiutato dall’ex collega Scuderi, affronta l’indagine a modo suo, ma la vita gli mette di fronte altre situazioni estremamente difficili come quella di difendere la fidanzata Clara, escort di professione, e soprattutto di ridare il sorriso a una bambina.
Nonostante le difficoltà, Tobia riesce a trasformare in armi le sue debolezze per arrivare a disvelare la verità che si cela dietro i volti della donna della luna.
Ecco l’incipit.
La donna della luna
di Matteo Severgnini
L’investigatore privato Marco Tobia era stato lasciato solo sull’isola. Intorno a lui c’era il silenzio. Si sentiva bene. Finalmente bene. In quel momento aveva tutto ciò di cui aveva bisogno. Nient’altro che silenzio.
Sfilò con cura uno spinello di marijuana dalla scatoletta di alluminio. Aveva atteso che l’ultimo battello carico di turisti lasciasse il pontile dell’isola di San Giulio per uscire di casa e andare, come tutti i giorni a quell’ora, a sedersi sui gradini di sasso della spiaggetta. Lo sguardo di Tobia era inchiodato di fronte a lui, le gambe allungate, lo spinello acceso tra le dita. Con una boccata fece sfrigolare la piccola brace, socchiudendo gli occhi, trattenne per un istante il respiro. Fece uscire una nuvola densa di fumo che gli coprì la visuale. Al di là della nuvola c’era Orta con la sua piazza che si affaccia sul lago, il vecchio municipio, i bar e le case antiche a ridosso della riva e quelle abbarbicate e, in cima alla collina, il Sacro Monte. Il sole stava tramontando alle sue spalle e irradiava la sponda di Orta facendo sembrare piazza, case e vicoli una scenografia teatrale illuminata dalle luci di scena.
Fino a pochi minuti prima i rumori si erano infilati come tutti i giorni nella casa di Tobia e, attraverso le fessure delle sue finestre di legno chiuse, si erano mescolati con l’aria calda. Avevano invaso il suo appartamento e lo avevano avvolto come una seconda pelle. Quei rumori ora lo avevano abbandonato. Per lui l’unica cosa da fare era godersi quel momento, sapendo che l’indomani un altro stuolo di turisti vocianti sarebbe sbarcato sull’isola. E tutto sarebbe ricominciato.
Ma ora l’isola si era svuotata.
Nonostante quella rumorosa presenza estiva, la minuscola isola di San Giulio in mezzo al lago d’Orta era l’unico luogo in cui Marco Tobia volesse vivere. Circondato dall’acqua in sua difesa.
Acqua e quel silenzio.
Tirò un’altra boccata chiedendosi dove avrebbe cenato. A casa, ma non aveva nessuna intenzione di lavare le stoviglie sporche nell’acquaio, lì da un paio di giorni; al ristorante, ma non aveva nessuna voglia di andare a mangiare attorniato da clienti chiassosi.
Per Tobia quella che si stava concludendo era stata una giornata difficile. L’aveva trascorsa interamente nel suo appartamento a combattere contro i suoi tic e gli spasmi. I suoi vicini, i padroni di casa, non erano ancora arrivati a riaprire il loro appartamento. Risperdal e marijuana non avevano avuto l’effetto sperato. Non era uscito di casa e non aveva trovato rimedio contro i tic. Costruire le montature per le sue canne da pesca quella volta non aveva funzionato.
Pensò di farsi preparare da Bruno un risotto al pesce persico e mangiarselo direttamente nella vaschetta di plastica, sdraiato sul suo divano.
Lanciò il filtro dello spinello verso il lago. Volteggiò in aria e andò a colpire uno zainetto rosa con un disegno a fiori che galleggiava a pelo d’acqua, lambendo la riva. In ginocchio, allungando il braccio, riuscì ad afferrare lo zainetto che iniziò a gocciolare. Tirò piano la cerniera, come se non volesse rovinarlo nonostante fosse inzuppato. Dentro trovò un fazzoletto bianco con la lettera M ricamata, una decina di pastelli a cera e un piccolo bloc-notes. Con delicatezza cercò di separare i fogli uno a uno. In una pagina c’era un disegno scolorito. Riconobbe a fatica l’immagine di una barca a vela con a bordo tre figure e riuscì a leggere Papà, Mamma, Io Firmato Marilena. In alto un grosso sole che era stato di un giallo fiammante con lunghi raggi. Ricordò un episodio della sua infanzia. Uno dei tanti da lui vissuti più di quarant’anni prima, quando frequentava le scuole elementari.
La mia maestra è in piedi appoggiata alla cattedra. I banchi sono uniti a due a due. Noi siamo nei nostri banchi e siamo chini sui fogli. Ci stiamo impegnando con tutta la nostra concentrazione e le nostre forze.
«Fate un bel disegno. Quello che volete e mi raccomando, fatelo bene, colorate dentro i contorni delle figure e colorate tutto il foglio. Non voglio vedere parti bianche.»
In aula sentiamo solo le matite che scorrono sui fogli. A volte sentiamo anche i nostri sospiri. Prendiamo fiato per immergerci nuovamente a colorare.
«Woof! Woof!» grido e contemporaneamente la mia spalla, il mio braccio e il mio gomito si sollevano all’altezza della testa.
«Marco» mi richiama la maestra.
«Woof! Woof!»
«Marco basta!»
«Woof! Woof!»
Non riesco a fermarmi. Cerco di disegnare. La mia mano con la matita tra le dita va dove vuole.
«Woof! Woof!»
Non riesco proprio a fermarmi.
«Ho detto basta!!! Smettila di disturbare la classe!»
La maestra sta urlando.
Gli altri bambini mi osservano. Tutti stanno ridendo di me. Alcuni senza farsi notare dalla maestra che si sta avvicinando, altri sguaiatamente, altri bisbigliano woof woof.
La maestra è vicino a me.
«Woof! Woof!»
Continuo a urlare. Non riesco a fermarmi.
«Senti Marco, ora la smetti immediatamente altrimenti ti mando dalla direttrice» minaccia la maestra tornando calma.
«Woof! Woof!»
«Non prendermi in giro!» poi esplode.
La classe ammutolisce.
La maestra continua a gridare:«Guarda il disegno che hai fatto! Ci sono righe dappertutto. Hai colorato fuori dai contorni!»
«Woof! Woof!» continuo e questa volta alzo nuovamente il braccio.
«Adesso basta!»
La maestra mi afferra con forza il braccio. Mi fa male. Mi alza di peso dalla sedia. Sono in piedi. Non so cosa fare. Riesco solo a dire:«Non lo faccio apposta, non riesco a fermarmi…»
«Tobia, adesso ti porto dalla direttrice. Tu mi rovini la classe…» dice la maestra con fermezza.
Sono trascinato per un braccio fuori verso la porta. Prima di scomparire dietro lo spigolo mi volto. Vedo tutti i miei compagni ridere. Tutti stanno dicendo sottovoce Woof! Woof! Woof! Woof! Woof! Woof!
Sono triste. Come lo sono stato ieri e come, ne sono certo, sarò domani. Ma non piango.
Due cigni si levarono in volo infastiditi dall’arrivo di una barca a motore. Tobia si accorse che alla guida c’era Anselmo con la prua che puntava il suo pontile. A bordo c’era una donna. Con le braccia tese, si stava reggendo sulla panca per non perdere l’equilibrio. Ormeggiata la barca, il barcaiolo lo raggiunse a grandi falcate. Anselmo si tolse gli occhiali, lasciandoli penzolare legati al cordino di pelle che aveva intorno al collo. Aveva l’espressione mortificata.
«Lo so, lo so che non avrei dovuto portarla da te adesso – esordì – Ho cercato di spiegarle che a quest’ora hai smesso di lavorare. Ma oltre a raccontarmi il motivo per cui ti vuole incontrare, è rorante. Si è messa a piangere come una fontana e non sono riuscito a dirle di no.»
«Tu Anselmo hai l’animo troppo sensibile. Questo non è un bene. La tua sensibilità ti porterà alla rovina» disse Tobia osservando la barca attraccata.
Gli sorrise. Anselmo sospirò sconsolato.
«Rorante. Hai scoperto una parola dimenticata?» continuò.
«Sì – rispose orgoglioso – Significa lacrimevole. Mi ha fatto compassione.»
«Un giorno mi spiegherai perché collezioni le parole che non si usano più.»
«C’è chi colleziona i francobolli, i quadri, le opere d’arte e anche i fumetti. Io colleziono le parole dimenticate. Non ci trovo nulla di strano.»
«Se lo dici tu che… Woof! Woof!» urlò Tobia che non riuscì a terminare la frase.
Contemporaneamente la sua testa scattò veloce a destra due volte. Il barcaiolo si spaventò e fece un passo indietro.
«Perdonami Marco, ma a volte mi dimentico. La tua migliore amica, la Tourette, non ti lascia proprio stare?»
«No» rispose laconico, incurante della reazione dell’amico.
«Brutta giornata?»
«Bruttissima.»
«Le prendi sempre le medicine?»
«Certo, altrimenti sarebbe molto peggio.»
«Marijuana?»
«Quella di più, fa molto meglio.»
«Accompagno qui la signora?»
«Cosa ti ha raccontato?» domandò a sua volta Tobia.
«Ah… no – disse fermo Anselmo – Lo sai che non voglio immischiarmi nelle tue faccende, nei tuoi casi…»
«La signora ti ha già spiegato il motivo. Sei già immischiato.»
«Non lo sono affatto. Ho solo ascoltato e mi basta.»
Anselmo si allontanò con fare spedito verso il pontile. Confabulò con la donna, poi l’aiutò a scendere dalla barca. Si appoggiò con le braccia conserte a uno dei piloni in legno. Tobia, sempre seduto sui gradini, osservò la donna camminare a fatica sulle assi del pontile. Stava attenta a non infilare i tacchi a spillo nelle fessure. A ogni passo i suoi capelli lunghi ondeggiavano a destra e a sinistra. Indossava un tailleur color kaki. Sul volto non c’era un filo di trucco. Rimase per un istante interdetto perché si era aspettato un altro tipo di donna, ma soprattutto aveva immaginato di incontrare una donna con gli occhi gonfi per le lacrime. Osservandola ipotizzò che avesse cinquant’anni, che fosse una donna attraente anche grazie a qualche intervento del chirurgo estetico.
«Dottor Tobia, buonasera. Sono Lucia Baroni» esordì la donna allungando la mano.
«Non sono dottore. Sono infermiere capo reparto. Buonasera» rispose stringendole la mano.
La donna non capì l’ironia e continuò.
«Come mi ha riferito il suo assistente, il signor Anselmo, lei…»
«Non è il mio assistente, è lui il primario.»
«Mi scusi?»
«Lasci perdere…»
«Chiunque sia, mi ha detto che a quest’ora lei ha terminato di lavorare.»
Tobia annuì.
«Quindi la ringrazio per avermi ricevuta. Senza fare tanti giri di parole, la voglio assumere perché ho bisogno di un investigatore privato con esperienza. Solo lei può aiutarmi. Mi hanno riferito che è stato ispettore di Polizia. Un bravo ispettore.»
Tobia fece cenno con la testa di proseguire.
«Gli inquirenti hanno chiuso l’indagine riguardo la morte di mio fratello Carlo. Forse ne avrà sentito parlare.»
«No» disse mentendo.
Alcune settimane prima aveva letto un articolo sul giornale che parlava del ritrovamento in acqua del corpo di un uomo. Baroni gli raccontò che subito si era pensato a un suicidio, ipotesi poi confermata dall’autopsia.
«Ma Carlo non si sarebbe mai suicidato! Non ne aveva motivo. Nessun motivo per un gesto così estremo» disse ferma.
«Cosa dovrei fare?»
«Indagare su come è morto mio fratello. Chi l’ha ucciso.»