Trentamila tifosi all’Hampden Park di Glasgow, per festeggiare gli eroi della nazionale scozzese. Rod Stewart, allora all’apice del successo, canta Ole Ola (We’re gonna bring that World Cup back from over there), canzone di rara bruttezza tra l’altro, mentre la copertina del 45 giri, su cui il buon Rod è (non a sorpresa) in compagnia di una bottiglia di birra è esemplare dell’ingenuità di quegli anni.
Un giornalista chiede a Ally MacLeod, lo spavaldo allenatore: “What do you plan to do after the World Cup?” (Cosa pensi di fare dopo la Coppa del Mondo?) e MacLeod risponde: “Retain it.” Tenermela. (Questa pare non sia vera, ma è verosimile).
La cosa vera è che tutto questo succede… prima del mondiale di Argentina ‘78, al momento della partenza degli scozzesi, tra un tale entusiasmo che, si racconta, alcuni tifosi dei “tartan” pensano di affittare un sottomarino per attraversare l’oceano.
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Per la seconda volta consecutiva gli scozzesi sono gli unici rappresentanti delle isole britanniche a qualificarsi. Nel 1974 si presentarono con una squadra ricca di campioni, da Kenny Dalglish a Billy Bremner al vecchio Denis Law, The King, che all’inizio degli anni sessanta aveva giocato (e bevuto tantissimo) anche a Torino. Non persero nessuna partita, subirono un solo gol, dominarono anche contro il Brasile ma… vennero eliminati per la differenza reti. A gallant failure, un fallimento valoroso.
Nelle qualificazioni per il mondiale del ‘78 l’Inghilterra la facciamo fuori noi, anche in questo caso grazie alla differenza reti. Gli scozzesi la spuntano battendo il Galles in un tiratissimo incontro disputato ad Anfield, scelto dalla federazione dei dragoni per fare un maggiore incasso.
Hanno nuovamente una squadra forte i “tartan”, in effetti, con Kenny Dalglish, Joe Jordan, e a centrocampo Archie Gemmill e Graeme Souness, all’inizio follemente lasciati fuori da MacLeod: il baffuto campione del Liverpool gioca solo l’ultima delle tre partite.
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Fin da subito, tutto quello che può andare male, lo fa. Sulla collina che porta all’hotel scelto per il ritiro si rompe la frizione del pullman, che deve essere spinto da un camion su per la salita.
L’esordio è contro il Perù, considerato con superficialità una squadra vecchia. Finisce 3-1. Per i sudamericani, ispirati dal grande Teofilo Cubillas, e nonostante il gol iniziale dello squalo Jordan. I bookmaker alzano le quote per i “cardi” (undici cardi, thistles, sono ricamati sulle maglie blu) da 9:1 a 33:1. Insomma, la pensano diversamente dall’allenatore MacLeod relativamente alla vittoria nella Coppa del Mondo.
La partita successiva è contro l’Iran, la Cenerentola del campionato. Finisce con uno squallido 1-1. La Chrysler cancella la sua sponsorizzazione alla squadra: non sono all’altezza delle nostre campagne pubblicitarie, dice un portavoce durante una conferenza stampa molto confusa. L’austero Guardian chiosa scrivendo: almeno la Chrysler non aveva costruito il bus del team (sì, quello che s’era guastato prima di arrivare al ritiro).
Per qualificarsi dovrebbero battere con tre gol di scarto, nell’incontro decisivo, i vice-campioni in carica dell’Olanda.
A venti minuti dalla fine, con la Scozia in vantaggio 2-1 e di nuovo in attacco, tre difensori olandesi accerchiano Dalglish sottraendogli la palla, che però finisce sui piedi di Gemmill al limite dell’area. Inizia qui l’Archie show; un primo dribbling su Wim Jansen, un secondo su Ruud Krol e un terzo su Poortvliet prima di scagliare un rasoterra all’angolino imprendibile per Jongbloed, il portiere con la maglia numero 8. Un gol fantastico, eletto poco tempo dopo il più bello di tutto il Mondiale, citato pure dal film Trainspotting nella scena della camera da letto, come metafora dell’orgasmo.
L’orgasmo dura pochi minuti, ci pensa Johnny Rep a rimandare a casa (dalla porta sul retro, come scrive sarcastico il Daily Record in un titolo rimasto celebre) gli scozzesi. Il solito MacLeod regala un’ultima battuta fantastica: con un po’ più di fortuna alla Coppa del Mondo mi avrebbero nominato cavaliere, adesso probabilmente con la stessa spada mi taglieranno la testa.
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Con l’Olanda seconda grazie alla differenza reti, il girone lo vince il Perù. Anche Germania Ovest e Brasile non brillano, i tedeschi manco riescono a battere la Tunisia (quattro anni dopo confermeranno i loro problemi con le mediterranee addirittura perdendo contro l’Algeria), i carioca chiudono con due pareggi, una sola vittoria e la miseria di due gol segnati. I gruppi li vincono la Polonia e la sorprendente Austria di lumachina Prohaska, del centravanti Krankl, del giovane Schachner e del bellissimo, sfortunato Bruno Pezzey, che morirà un capodanno, neanche quarantenne, vittima di un infarto mentre giocava a hockey con gli amici.
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Noi arriviamo al torneo tra le polemiche, la squadra guidata da Enzo Bearzot sembra non all’altezza, e al primo minuto dell’esordio contro la Francia, in sovrammercato, ci segna Lacombe. Ci sono tutti i presagi del disastro, invece la giriamo: pareggia il giovane Paolo Rossi, una delle due sorprese nelle scelte del c.t. (l’altra è Antonio Cabrini) e nella ripresa la vinciamo con un gran tiro tagliente di Zaccarelli. Poi battiamo giocando molto bene anche l’Ungheria, e di nuovo fa meraviglie Paolo Rossi. Ci presentiamo alla terza gara contro i padroni di casa che siamo entrambi già qualificati. In palio, oltre al prestigio, la sede in cui giocheremo nel secondo girone: resteremo al Monumental di Buenos Aires o ci trasferiremo a Rosario? E Bearzot, farà il turnover che tutti i giornalisti gli suggeriscono?
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La prima puntata:
Ponti di memoria: i mondiali di Argentina ’78
La prossima settimana:
Apodos: il coniglio e il lupo