Nel folklore piemontese, un bambino nato prematuro al settimo mese viene chiamato setmìn, il settimino come l’omonimo romanzo di Fabrizio Borgio pubblicato da Acheron Books. Secondo tradizione, il settimino è dotato di oscuri e terribili poteri sovrannaturali, proprio come Davide Bo la cui storia si intreccia con i misteri di Stato. Le stragi. Gli anni di piombo. La strategia della tensione. I terroristi. La massoneria. I servizi deviati. Un pezzo di storia d’Italia.
E quando la storia del più potente ESP al mondo si sovrappone alla storia di una nazione dalle mezze verità, dove dominano mafie, logge, rigurgiti totalitaristi e poteri occulti di ogni genere, il risultato finale non può che essere catastrofico.
E così Fabrizio Borgio (classe 68, prematuramente nato a Asti e residente a Costigliole d’Asti) ci presenta la nuova avventura di Stefano Drago, agente speciale del Dipartimento Indagini Paranormali. Fabrizio Borgio, raffinato giallista, per la prima volta nella narrativa di genere italiana mescola l’elemento supernatural con una trama poliziesca ad altissima tensione che, come il filo di una ragnatela, si ricongiunge con altre mille trame segrete, quelle del nostro Paese.
Fantascienza, horror, mistero, fantastico “tout court”, gialli e noir sono i generi che maggiormente coinvolgono Fabrizio Borgio, autore di Arcane le Colline nel 2006 e La Voce di Pietra nel 2007, e (per Fratelli Frilli Editori) Masche (terzo classificato al festival Lomellina In Giallo) e La morte mormora. Nel 2014 esce Vino rosso sangue, il primo noir con protagonista l’investigatore privato Giorgio Martinengo. Asti ceneri sepolte, secondo libro di Giorgio Martinengo mentre Morte ad Asti è l’ultimo noir pubblicato con Martinengo protagonista, sempre per la Frilli editrice.
di Fabrizio Borgio
Il letto prese a fremere. Lenzuola e coperte erano attraversate da movimenti ondeggianti, come un mare di tessuto in balia della risacca. Tutta la struttura tremava, agitata da una vibrazione crescente che si propagò per l’intera stanza; le tende sventolavano come bandiere, scosse da un vento invisibile, la cassettiera tamburellava aritmicamente mentre i tiretti, bloccati, spingevano contro i fermi. Una poltroncina si spostò dal suo angolo e cozzò con un tonfo sordo contro la porta della camera da letto. Gli abiti sparsi in giro svolazzavano come foglie in un vortice, la sveglia schizzò dal comodino e s’infranse contro la parete di fronte, tintinnando in mille rigoli di rotelle e molle saltate. La lampadina dell’abat jour esplose proiettando il sottile vetro sfarinato tutt’attorno e quando, suo malgrado, eruppe in un secondo, intenso orgasmo, la lampada volò via, sfondando il vetro della finestra e distruggendosi sulla strada sottostante. Davide si svegliò di soprassalto, destato dal fragore di quella tempesta sessuale. Coperte, abiti, i frammenti della sveglia ricaddero bruscamente a terra e lui, affannato e tremante, il respiro che gli sollevava il petto con movimenti nervosi, scrutava il buio della camera, riappropriandosi a fatica della veglia. Perso, disorientato, lentamente si alzò dal giaciglio, muovendosi con goffa circospezione; cercò a tentoni l’interrutore della luce e si avvicinò alla finestra infranta. Con due dita, staccò alcuni frammenti acuminati, che pendevano dal telaio come zanne malferme e, svegliato dal freddo che s’infilava nella camera, notò un furgone scuro partire a fari spenti proprio sotto il suo domicilio.
***
I ricordi, riavvolti dal flusso di quella memoria improvvisa, finirono. Si spensero, come un televisore che rimane tutto a un tratto senza corrente elettrica. Davide incontrò una seconda volta se stesso nello specchio della gioielleria, davanti alla quale s’era imbambolato, inchiodato nel bel mezzo del marciapiede, spazzato da quel repentino ritorno al suo passato più prossimo. Da invisibili altoparlanti, udiva un’ossessiva nenia natalizia che sembrava sovrastare il brusio di fondo degli astigiani impegnati nella vasca serale. Un tizio passò alle sue spalle con passo veloce sfiorandolo all’altezza dei reni; Davide si voltò d’istinto, approfittando della fugace intrusione in quella sfera statica del suo vivere, per affrancarsene e ritornare a una parvenza di normalità. Il passante teneva la testa incassata tra le spalle, una berta di lana calcata fino a nascondere le orecchie, ma malgrado quella copertura Davide intravide il cavo attorcigliato di una ricetrasmittente fare capolino dal bavero del giubbotto imbottito. Mosse passi incerti in direzione dello sconosciuto, perdendolo rapidamente di vista. Sprofondò le mani nelle tasche della giacca a vento e s’incamminò verso piazza San Secondo, sbucando proprio al cospetto della Collegiata. Imperava la chiesa romanica, illuminata da fari incassati nel selciato. L’ampio rosone centrale era un occhio titanico che scrutava con iride multiforme la piazza, la città e oltre. Una teoria complessa di tetti e pinnacoli si slanciava nel buio, svettando sulle case di ringhiera e le viuzze medioevali. Davide, in un gesto istintivo e non religioso, spinse una pesante anta borchiata e s’infilò al suo interno. Dentro ardevano tremule candele che emettevano luce tenue e e proiettavano ombre mutevoli sulle volte arcuate, contro i colonnati romanici. Anziane signore inginocchiate, le mani artritiche intrecciate, concentrate in mormoranti preghiere, occupavano i primi banchi, davanti all’altare maggiore, deserto. Sul lato destro del presbiterio, un tipo barbuto con un giubbotto di pelle da aviatore sembrava intento a osservare l’esposizione dei palii, nella cappella dedicata al santo patrono della città. Davide si mosse timoroso, le scarpe da ginnastica non producevano rumore sulla pavimentazione lucidata dal tempo. Percorse in tondo la navata centrale, s’infilò tra le panche di legno e si sedette all’ombra di un pulpito di legno scolpito. Tirò su col naso, si accomodò contro lo schienale rigido e reclinò il capo, osservando le volte che s’incrociavano sulla sua testa. L’irrequietezza che lo perseguitava da un paio di ore era un peso palpabile che gli gravava addosso con insopportabile pressione. Non c’era una causa precisa che avvertisse consciamente. La mente aveva iniziato a macinare pensieri come una coclea che s’avvita su se stessa. Sospirò ansioso, intrecciò le mani dietro la nuca e gettò un’occhiata alla sua destra, sbirciando l’uomo con la barba che passeggiava continuando a guardarsi attorno con un comportamento da turista. Si domandò chi potesse venire a fare le vacanze di Natale ad Asti. Lo sconosciuto gli passò a fianco, lo sguardo concentrato sulle pale dorate; Davide cambiò posizione per seguire i suoi spostamenti e, nel farlo, la panca su cui era seduto scricchiolò con fragore nel ieratico silenzio della collegiata. Il barbuto ebbe uno scatto fulmineo del capo e gli occhi, protetti da un paio di occhiali dalle lenti gialle, dardeggiarono sui posti a sedere, scandagliando i presenti come i fari delle torri di guardia di un campo di concentramento, con una freddezza e un’attenzione spietati.
Davide s’irrigidì. La reazione dello sconosciuto l’aveva spaventato e gli era sembrata spropositata verso il luogo e il frangente. Una sensazione di diffidenza, come una rotellina che d’un tratto inizia a girare, lo solleticò dietro la nuca. D’istinto, l’individuo non stava più visitando la chiesa, la stava sorvegliando e il gesto aumentò in lui il disagio e una sottile paura. Il turista passò oltre, la testa che si muoveva come un radar; Davide soffiò via l’aria che aveva trattenuto, contò mentalmente fino a dieci poi si volse a guardarsi le spalle. L’inopportuno guardiano si era fermato all’altezza dei portoni d’uscita, con due dita si toccava un orecchio, come ad aguzzare l’udito per captare qualcosa di distante e disturbato. Davide ritornò a fissare l’altare, un panico indistinto lo circondava, con spire dense come quelle dell’incenso. Sospirò. Un piede batteva nevrotico contro il bordo dell’inginocchiatoio e posando una mano sul ginocchio si costrinse a smettere. Sentiva che non appena si fosse avviato verso l’uscita l’individuo di guardia l’avrebbe bloccato. Non sapeva il perchè, non aveva la minima idea di cosa potesse volere da lui e la cosa gli alimentava l’angoscia, il disorientamento. Consultò l’ora; mancavano una decina di minuti alle 18.30, a quell’ora la collegiata di San Secondo si sarebbe riempita per la messa serale. Considerò l’afflusso di fedeli eleganti, le chiacchiere davanti al portone, auguri e strette di mano, una confusione forse sufficiente affinchè potesse mescolarvisi e uscire con discrezione. Pensò che forse stava costruendo un castello di paranoie, su un’impalcatura di incubi irragionevoli con chiodi di coscienza. Si stropicciò il viso con le mani giunte, rabbrividì sotto il piumino e si chinò per prendere un libretto dei canti e al contempo tenere d’occhio la sua via di fuga.
No.
Decise che non era paranoia, non era illusione. Ebbe un tuffo al cuore. Il barbuto era sempre lì e non era solo; al suo fianco il passante con la berta schiacciata in testa che l’aveva sfiorato prima. Sentì la bocca arsa, Davide. Asciugata da una paura nuova, che palpitava in lui a ogni battito cardiaco. “Che cosa vuole quella gente da me!” pensò con rabbia. Voleva gettare un’altra occhiata ai due ignoti persecutori ma senza mostrarsi rivolto a loro; pensò rapidamente a un espediente; era in chiesa, non aveva specchi o riflessi da sfruttare. Tastò le tasche fino ad afferrare il cellulare e portarselo all’altezza del viso. Sospirò. Accese la fotocamera e la rivolse dietro di sè mentre col pollice sfiorava lo zoom fino a inquadrare i due uomini. Confabulavano tra loro con discrezione, il barbuto con la testa alta, sempre intento a esplorare la collegiata, l’altro con le mani sprofondate nelle tasche, spalla contro spalla. Davide regolò l’esposizione per adattare l’apparecchio alla bassa luminosità dell’ambiente, trattenne il respiro e scattò una foto agli sconosciuti. Il flash lampeggiò in un fulmineo abbaglio che per un istante si riflesse sugli occhiali gialli del barbuto e questi scattò come un automa, osservando le figure tra le panche. Davide imprecò, mise via il cellulare e si spostò il più possibile verso il pulpito che gli torreggiava a fianco. Udì passi nervosi e il cuore prese a martellargli in petto, un caldo improvviso gli fece tirare giù la lampo della giacca; stava combattendo contro l’istinto di fuggire, come un animale selvatico che non sapeva ancora se avventarsi contro una minaccia o cercare una via di scampo.
I passi rimbombavano in San Secondo come piccoli rintocchi nefasti, ma non sembravano ancora vicini da destare preoccupazione. Azzardò un’altra fugace occhiata alle sue spalle: il tipo con la berta sostava davanti al portone principale mentre il barbuto era in parte nascosto alla sua vista proprio dalla piglia del pulpito. In quel momento, le campane suonarono nell’aria buia, Davide guardò l’ora. Dal portone principale e dai secondari, gruppi di persone ben vestite entrarono nella chiesa; un discreto ciangottare si diffuse tra le volte, mescolandosi allo scampanio. Una compunta signora col tailleur blu aveva preso posto all’organo e provava delle note d’accordo. La corale si stava disponendo alle spalle dell’altare mentre un tenore gorgheggiava per scaldarsi la voce.
L’afflusso di pubblico s’intensificò, Davide si sentì pervadere da un momentaneo sollievo, circondato ora di varia umanità. Si spostò sulla panca, facendo posto a due anziane e canute madame, una impellicciata come un’incartapecorita zarina.
Si sorbì tutta la messa facendosi scudo dei fedeli, evitò di consumare l’eucarestia e fece finta di cantare.
Quando il parroco invitò a scambiarsi un segno di pace, ne approfittò per controllare bene gli ingressi. Il barbuto era sparito mentre l’uomo con la berta si era appoggiato a una colonna sotto un manifesto delle Opere Missionarie. Appariva annoiato e ogni tanto si portava due dita all’auricolare, annuendo.