Accomunati da uno stesso interesse storico letterario e da un comune sguardo verso la memoria del secolo trascorso, considero Daniele Cambiaso un amico, oltre che un esperto compagno di avventure letterarie. Un filo comune che ci ha portati alla cura di antologie quali Crimini di regime (Laurum, 2008) e Crimini di piombo (Laurum, 2009).
Il suo romanzo d’esordio è il thriller storico Ombre sul Rex (Fratelli Frilli Editore, 2008) cui fanno seguito L’ombra del destino scritto a quattro mani con Ettore Maggi e dato alle stampe da Rusconi nel 2010.
Dopo la pubblicazione di Off Limits (21 Editore, 2015) dove Cambiaso si sofferma su un aspetto della sua Genova negli anni del dopoguerra (città che ricorda per certi aspetti la Chicago del proibizionismo), ha preso vita un sodalizio con Rino Casazza concretizzatosi con romanzi di particolare intensità quali Nora, una donna (Eclisssi 2017) sempre ambientato nella Genova del 1945, La Logica del burattinaio (Edizioni della Goccia 2017) e L’angelo di Caporetto (Ebook Algama 2017).
di Daniele Cambiaso
Arrivare ad inquadrare un uomo nel mirino. Alla fine, si tratta solo di questo. Visti al centro del reticolo graduato, gli uomini non sembrano poi così diversi l’uno dall’altro. Dopo, basta una leggera pressione del dito sul grilletto ed è fatta. Detta così, sembra semplice, ma non lo è. Bisogna avere due qualità, principalmente. La prima è la capacità di attendere anche per ore, di cuocere a fuoco lento aspettando l’attimo perfetto, imparando a dominare l’ansia, la fretta di concludere, il desiderio di scappare via, lontano, in salvo. Ovviamente è ben chiaro il pensiero che appena un istante dopo lo sparo, da cacciatori si diventa prede e nessuno avrà mai pietà di un killer. Si diventa carne da macello. Sono le regole del gioco. L’altra qualità necessaria è la capacità di pianificare un colpo ben studiato, senza margini di errore, e di attenersi al piano scrupolosamente.
Solo così è possibile pensare di scamparla.
Anche adesso, ad esempio, lascio che i pensieri scorrano fluidi, mentre osservo da dietro una staccionata la folla che si prepara ad applaudire, ad acclamare, a gridare. Non immaginano minimamente che cosa li aspetti. Io, qui, a pochi metri da tutti, sono l’invisibile angelo della vendetta. L’angelo nell’ombra.
Mentre la sigaretta si consuma tra le dita, mi sporgo a osservare l’edificio all’angolo della piazza. Lì c’è il secondo angelo, mentre un terzo è appostato più avanti. Si chiama triangolazione di fuoco. Ma è molto importante lui, il secondo. Ancora non lo sa, forse lo sospetta, ma è la pedina sacrificabile del piano. Ce n’è sempre una, fa parte dei piani perfetti e questo lo è. Poteva toccare a me o a un altro, invece sarà lui, l’ho capito non appena l’ho visto, non so perché. Esperienza, forse. Pagherà lui per tutti. Chissà come l’hanno incastrato, ma alla fine che importa? Lo immagino anche lui pronto col dito sul grilletto, anche lui solo coi suoi pensieri, coi suoi ricordi, coi suoi fantasmi.
Sono importanti, i fantasmi.
L’uomo che mi ha addestrato era stato un veterano delle operazioni coperte della CIA, un “bagnato” specialista in eliminazioni e altre faccende poco pulite.
«Lascia che i ricordi, il dolore, la rabbia ti rendano come una lama affilata» mi diceva. «Impara a concentrarti su un pensiero, un ricordo, un episodio. E lascia che ti conduca all’obiettivo.»
Stavamo in mezzo alle zanzare in qualche posto disperso delle Everglades. Si sentiva bestemmiare in spagnolo e in altre lingue. Era primavera e il vento portava un odore fresco che sapeva di violette di marzo.
«Il suo qual è?» Avevo chiesto, con la voce incerta della recluta.
Mi aveva guardato con uno sguardo da pazzo. Credevo mi avrebbe riempito di insulti, come quando sbagliavo il colpo, invece respirò profondamente gettando lontano la sua Pall Mall, quindi si rilassò contro la radice gigantesca di una mangrovia. Parlò tenendo gli occhi chiusi.
«Ero in missione in Cecoslovacchia, a Praga. Dovevamo far espatriare un chimico con la sua famiglia. Invece, la missione aveva un doppio livello. Serviva a far saltare fuori un traditore che spifferava i nostri affari ai tovarish. Il chimico e la sua famiglia erano solo pedine sacrificabili. Questo l’ho capito dopo, ma il fatto è che io ero presente all’arresto di quei disgraziati. Ho visto tutto col binocolo. L’uomo, la moglie… quello che non dimenticherò mai è stato il pianto della ragazzina, la loro figlia. A un certo punto, ha urlato guardando verso di me. Non poteva sapere che ero laggiù, al buio, a osservarli, ma era come se lo sentisse. Sembrava un film muto, ero troppo distante, ma quello sguardo e quell’urlo mi sono rimasti dentro… ho ucciso, fatto ammazzare, messo bombe, ma quella ragazzina mi è rimasta dentro. Strano, vero?» Aveva concluso, con una risata incerta.
Per lui, la notte di Praga e il pianto senza suono di una ragazzina. Per me?
Facile dirlo, adesso.
Il corpo di mio fratello Ramon esibito dai castristi esultanti in televisione dopo il fallimento dello sbarco alla baia dei Porci.
La rivoluzione ci aveva tolto tutto, piantagioni di tabacco, ville, agi e lussi di una vita che sembrava rubata a un film americano. Nostro padre non si era mai ripreso e si era suicidato gettandosi da un grattacielo a Miami, nostra madre si consumava in uno strazio senza fine. Ramon era stato il primo a reagire, voleva tornare a Cuba combattendo e io lo avevo seguito. Mi ero addestrato con loro, ero andato in Guatemala, nella finca degli Allejos e avevo raggiunto Ramon nella Brigada Asalto 2506. Dopo qualche tempo, erano venuti fuori due tizi in giacca e cravatta, capelli corti a spazzola e occhiali a specchio, che odoravano di CIA lontano un miglio. Mi avevano preso e destinato a un ramo collaterale e segreto dell’operazione di sbarco.
L’Operazione 40.
Saremmo dovuti arrivare dopo lo sbarco, nei territori liberati dai rossi, per prendere in consegna gli agenti dei servizi, controllare gli edifici pubblici, le banche, le industrie, e catturare i responsabili e i dirigenti politici in tutte le città e interrogarli. Eventualmente, liquidarli. C’era da sporcarsi di sangue comunista, un lavoro perfetto per me. Mio fratello non sarebbe mai stato tagliato per questo genere di cose, cercava la gloria sui campi di battaglia, voleva essere baciato dal sole. A me l’ombra, invece, non dispiace. Ancora non lo sapevo, ma i tizi con gli occhiali a specchio l’avevano capito. Prima di tutti, prima anche di me.
Quando lasciai Ramon alla finca, mio fratello mi abbracciò così forte da farmi male. E mi consegnò il suo amuleto, una collana con un dente di squalo. Non se ne separava mai, era uno dei pochi oggetti che si era portato via da L’Avana nella nostra fuga precipitosa, diceva che lo rendeva infallibile. Esitai, pensai me lo regalasse per farmi coraggio. Scambiai il suo gesto per timore che non reggessi la pressione, quasi mi offesi. Invece, sentiva che non mi avrebbe mai più rivisto.
Il giorno dello sbarco alla Baia dei Porci ero in uno scantinato puzzolente a Miami, pronto con gli altri a raggiungere le coste di Cuba. Il massacro l’ho vissuto in diretta, appeso alle comunicazioni gridate via radio. Mio fratello moriva in quell’inferno e io assistevo alla vigliaccheria di chi negava l’appoggio aereo. Ci avevano usati e buttati via, come stracci vecchi.
Piansi.
Non avevo pianto così neppure alla morte di mio padre. Ho pianto tutte le mie lacrime quel giorno, poi basta. Nemmeno davanti alle immagini del corpo di Ramon. Neppure davanti alle foto degli altri amici presi prigionieri, umiliati in un processo pubblico, incatenati e rinchiusi in una gabbia d’acciaio come bestie feroci.
Un solo pensiero. Vendetta.
Accarezzo il mio fucile di precisione. Ramon, fratello mio, questo sarà per te.
Gli applausi salgono. Il rombo in avvicinamento di una, due tre moto.
Schiaccio a terra la sigaretta. Accarezzo il dente di squalo, poi sistemo l’arma nell’incavo della spalla, bilancio il corpo e aspetto. Un respiro profondo, mi sento bene.
Mai stato meglio.
In fondo, per me, il bersaglio è solo un criminale vigliacco. Un criminale pallido e tremante di paura che ha venduto Ramon e tutti gli altri a Castro e ai suoi. Quindi, è giusto che muoia. Non mi interessa chi finanzia l’operazione, non mi interessa chi stia dietro alla cosa. Meno ne so, meglio è. Basta che lui muoia.
Gli applausi si fanno frenetici. Qualche grido. Colgo con la coda dell’occhio delle bandierine a stelle e strisce agitate dai presenti. Dall’altra parte della strada, qualcuno apre un ombrello.
È il segnale. Ci siamo.
Sento dei colpi, ma non stacco l’occhio dal cannocchiale.
Sembrano petardi, la gente continua a gridare e applaudire. Il primo angelo ha già aperto il fuoco. Mi chiedo con quale efficacia.
Quando il bersaglio entra nel mio mirino si è portato le mani alla gola, è leggermente piegato in avanti. La donna accanto a lui gli è quasi addosso. Vedo i suoi occhi spalancati, lo stupore che si disegna sul suo volto, vedo Ramon, vedo mio padre immerso nel suo sangue a Miami.
Sparo.
Sento lo schiocco secco del colpo, assorbo il rinculo del fucile, e vedo.
Vedo esplodere la testa del bersaglio, con uno scatto all’indietro, mentre qualcuno ancora continua ad applaudire, altri si gettano a terra gridando.
Non serve altro.
Dopo, è solo una serie di movimenti rapidi, meccanici. Via il fucile, una corsa verso la salvezza. I meccanismi di copertura si attiveranno. Le pedine sacrificabili saranno immolate.
Mi immergo nell’ombra che amo col pensiero che per il resto del mondo tutto questo si chiamerà Storia. Per me, è il giorno della giustizia, della vendetta.
Ed è un bel giorno, oggi, qui a Dallas.
È il 22 novembre 1963.