Lo scrivevo un sacco di anni fa. La quasi totalità delle persone che mi leggono sono convinte che i romanzi horror siano soltanto un bel prodotto dell’immaginario. Io già un sacco di anni non ne ero per niente convinto, soprattutto a causa del banalissimo, vecchio adagio sul diavolo cui nessuno crede. Scrissi all’epoca che, se soltanto avessimo cominciato a leggere i quotidiani con la predisposizione intellettuale di un aggiornato dottor Van Helsing, avremmo avuto di che meditare.
Il tempo è passato e la cronaca, se non sono diventato daltonico, è sempre più nera. Allora giova il ripescare, in occasione della presentazione alessandrina dell’antologia di Morellini I Signori della Notte, a cura di Luca Raimondi, l’incontro che feci nel cimitero di San Salvatore Monferrato davanti alla cappella di Paolo Provera, impareggiabile concittadino che s’incatenò in piedi all’interno del proprio sarcofago funerario un paio d’ore prima di morire e di ho scritto più volte. Quella volta m’imbattei in un vampiroide… Ma sì, tipo magro ed esangue, tenuta dark, spettinato come Ghezzi, occhiaie nere, labbra rosse e denti bianchissimi. Allora gli diedi appuntamento per un’intervista, partendo dal fatto che qualcuno in città lo definiva “iettatore” (sì, insomma, uno di quei quei tipi un po’ lugubri e particolari al passaggio dei quali, in provincia, la gente si artiglia i marroni…). Lui mi dichiarò: «La luce mi fa male, non mi piacciono le croci e vomito a sentire la puzza dell’aglio. Quando mi hanno battezzato da piccolo, hanno dovuto portarmi al Pronto Soccorso perché l’acqua santa mi aveva provocato delle bruciature. I vampiri non esistono, dicono, ma io cosa sono allora? Ah, mi piace molto la carne al sangue e mia nonna mi ha allevato a sanguinaccio.”
Questo era l’inizio di un’intervista surreale, avvenuta di notte in un pub, nella quale scoprii che l’uomo sapeva quasi tutto su Dracula e affini. Magari non conosceva le teorie della scrittrice di Washington Elisabeth Campos sui “vampiroidi”, persone da considerarsi vampiri a tutti gli effetti e che, a differenza dei loro modelli più celebri, riempivano ai tempi la casistica giudiziaria americana. Secondo la Campos, che è avvocato, questi personaggi s’immaginano di essere dei veri vampiri e si comportano di conseguenza: non escono mai di giorno, temono fortemente l’acqua benedetta e il simbolo della croce, bevono in genere sangue animale, nella cui mancanza può accadere che giungano a bere il proprio oppure, nei casi estremi e patologici (e ne esistono), anche quello di sfortunate vittime uccise ad hoc. Non a caso certi famosi assassini seriali sono passati alla storia come “il vampiro di Dusseldorf” o “il vampiro di Sacramento”. Ovvio, mi guardai bene dall’esternare all’amico all’altro capo del tavolo le teorie della signora Campos. “Vampiroide” non è parola così gradevole e sembra rimandare a qualche deficit cerebrale, lontanissimo dal romantico fascino dei succhiatori di sangue. E allora gli chiesi se aveva intenzione di curarsi, dal momento che la sua condizione non sembrava il massimo per le relazioni sociali. «Sì, mi piacerebbe partecipare a una messa nera”, fu la sorprendente risposta. “Sai, di quelle in cui si fa fuori qualche piccolo animale e si beve un po’ del suo sangue. Non roba con vergini da possedere perché non ne mastico molto. Mi accontererei di qualche rito in comune di tanto in tanto, una storia del genere ‘grolla dell’amicizia, uno che mi passa l’animaletto ancora caldo e io tiro la mia razione dalla ferita. Sì, mi piacerebbe, ma come si fa? Non conosco nessuno di quei giri lì.»
Yes, avete letto bene: la grolla dell’amicizia satanica, versione vampiresca del joint. E, prima di alzarsi dal tavolo, disse con aria conclusiva: «In ogni caso mi piace molto vivere la notte. Anche se sono sempre solo, mi sento bene. Prima vado al cinema, poi guardo la gente. Di giorno non mi sarebbe possibile. Arrivederci.»
Si è allontanato, il vampiroide, curvo, le mani in tasca, lo sguardo triste un po’ alla Burton, mescolandosi agli animali notturni che di lui nulla sapevano.
Così oggi, per tornare all’assunto iniziale, faccio ancora mie le considerazioni che l’antesignano Emilio de’ Rossignoli affidò alla carta nel 1960: “Credo nei vampiri e non sono in cattiva compagnia. Prima di me, vi credettero Rousseau e Byron, Mérimée e Baudelaire, Swinburne e Poe, Gautier e Hoffman, Goethe e D’Annunzio. Vi hanno creduto sacerdoti come don Calmet, Padre Brugnolo, Giuseppe Davanzati: scrittori come Ranfft, Burnet, Rehrius, Shaack, Fritsche; medici come Krafft-Ebing, Berthollet, Hartmann, Castelneau, Lombroso; magistrati, professori, scienziati. Prima che Roma fosse un solco quadrato sulle rive del Tevere, ci credettero Sciti e Caldei, Egizi e Greci. E Roma edificò la sua potenza temendo la loro sete. Dopo, nel tempo e al di fuori del tempo, a Oriente e a Occidente, a Settentrione e nell’estremo Sud, i vampiri continuano a vivere. La scienza e la tecnica non li hanno annientati, ma sono riusciti a renderli più pericolosi. Ora, mordono a distanza, ricorrono alla medicina e alla chirurgia, si mimetizzano fra i criminali e gli psicopatici, ma anche fra le persone normali. Hanno cancellato le loro origini e sono diventati letterati, artisti, avvocati, medici, industriali. E spesso non si accontentano più del sangue: vogliono l’anima. I vampiri sono fra noi, la cronaca stessa ve ne offre la prova ogni giorno. Credo nei vampiri. Popolano le cronache criminali di nomi vecchi e nuovi, ma tutti legati a storie d’incubo: Jack lo Sventratore, Peter Kuerten, Andréas Bichel, John Haigh, John Reginald Christie, Max Gufler, Heinrich Pommerenke, Burke e Hare. Escono dalle nebbie del passato come Gilles de Rais, Jacob Kavanski, Arnoldo Paolo de Madreiga. Sorgono dai cimiteri del presente come Nicolas Broda, Vanja Gica, Elefteria Kalkias, Irene Minas. Li ho rievocati in un brivido — fantasmi senza pace — toccando gli squallidi oggetti della loro condanna, i cunei di frassino e il martello, in una casa serba.
Li ho sentiti, come un sottile e perfido profumo dell’aria, dinanzi alle porte chiuse, segnate dai grappoli d’aglio e dal pesante silenzio dell’attesa. Li ho uditi nel vento della notte, là dove sono temuti. Li ho compresi quando ho conosciuto la sete, la fame, l’amore, il timore di morire. Li ho visti, forse.
Mentre scrivo queste righe, ho una lettera davanti a me. E’ datata: ‘Budapest, 3 novembre 1956’. Anche per questo pezzo di carta credo nei vampiri. Io devo credere, perché un uomo, un amico, mi ha scritto. Ed era forse già morto sulle barricate della rivolta quando ha tracciato quelle poche righe. La lettera dice:
‘Ora sono veramente solo. Ricordi il mio incontro nel cimitero di Recks? Ne feci una relazione minuta, ma omisi di proposito un particolare. Nel lottare con l’altro fui morso alla mano. Era una ferita da nulla, ma il segno rimase. Adesso, penso che sia restato anche nella mia anima. Spero che non c’incontreremo più; non voglio che tu veda come sono e che mi paragoni a com’ero. Ma se dovessi — che non sia, che non sia — trovarmi sulla tua strada, ricorda ciò che tu e io sappiamo e fa cessare questo strazio, per l’amore di tua madre.’ Quello che io e lui sappiamo è il potere risolutivo della picca. Per questo — con la pietà nel cuore — credo nei vampiri.”