Per il consueto appuntamento di ALlibri, questa domenica si rientra nei ranghi di casa nostra per presentare il racconto Scimmie di Emiliano Bottacco, alessandrino, già noto al pubblico locale per la sua attività di giornalista e per quella di scrittore. E’ presente in diverse antologie pubblicate nel corso di questi ultimi anni (e curate dal sottoscritto insieme all’’amico Enzo Macrì) tra cui Ribelli (Robin Editore) e Come foglie sugli alberi (Delmiglio Editore). Il racconto proposto oggi è tratto dalla raccolta Ciò che la nebbia nasconde, pubblicata dalle Edizioni della Goccia lo scorso anno in occasione dell’omonimo concorso letterario bandito dalla Biblioteca Civica.
Scimmie
di Emiliano Bottacco
La prima fu vista ai giardini della stazione, vicino al laghetto dei cigni.
In realtà non la videro tutti, ma solo alcuni. E quei pochi diedero versioni discordanti.
La seconda volta ne furono viste tre, sempre nei giardini. Questa volta le videro quasi tutti. Erano grandi come esseri umani adulti. Alcuni dissero che sembravano babbuini, con ghigni maligni e beffardi che mettevano in mostra i canini affilati. Altri dissero che erano scimpanzé. Molti non seppero nemmeno indicarne la specie. Tutti erano d’accordo nel dire che erano ricoperte di fango, come se si fossero rotolate in una pozzanghera. Non infastidivano i passanti, anzi si tenevano a distanza, ma erano inquietanti. Era impossibile prenderle o anche solo avvicinarle.
Era anche arrivata una squadra della protezione animali, chiamata per l’occasione da Torino, metti che fossero povere bestie scappate da un circo o da uno zoo. Quando gli uomini della squadra erano arrivati, ai giardini non c’era più traccia delle scimmie, nemmeno mezza impronta. Se n’erano andati borbottando insulti contro lo spiritoso che aveva pensato bene di fare uno scherzo. Le scimmie erano sbucate fuori poche ore dopo. Saltellavano intorno ai giochi per bambini lanciando urla acute, divertite per la beffa. Ed erano diventate quattro.
Da quel giorno iniziò a serpeggiare una crescente inquietudine tra i pacifici cittadini di Alessandria. Nessuno metteva più in dubbio l’esistenza delle scimmie, nemmeno quei pochi che non le avevano ancora viste. Non aveva importanza che non ci fossero due sole testimonianze uguali sul loro aspetto. Le scimmie c’erano e su questo erano tutti erano d’accordo. E ogni tanto ne saltava fuori una nuova, che si univa alle precedenti in danze condite da grida selvagge. A un certo punto fu quasi impossibile dire quante fossero, perché se ne stavano acquattate tra i cespugli o arrampicate tra le fronde degli alberi.
Si sapeva solo che erano tante. Più di quante fosse ragionevole immaginare, anche ammettendo che si riproducessero alla velocità della luce. La notte, tra gli alberi e i cespugli, risuonavano grugniti e versi striduli, più simili a risate malevole che a urla di animali. Di giorno, sbirciando da piazza Garibaldi o da Corso Crimea, potevi intravedere nella nebbia le sagome scure delle scimmie, che scorrazzavano a quattro zampe tra le aiuole.
Quando il cigno del laghetto fu trovato morto, il corpo che galleggiava nell’acqua stagnante tinta di sangue, nessuno ebbe dubbi su chi fossero i responsabili.
Era il sei novembre e le scimmie erano state viste per la prima volta dieci giorni prima. Nel mentre i giardini si erano spopolati. Anche gli spacciatori li evitavano. I chioschi di bibite e panini avevano chiuso i battenti, le badanti dell’est avevano smesso di ritrovarsi sulle panchine di viale della Repubblica durante il loro giorno libero. I pensionati avevano optato per mete più tranquille in cui passare i pomeriggi, in attesa della cena e dei quiz sul Canale Uno.
I giardini erano diventati una grande cicatrice nel corpo della città, come un buco nella strada da cui tutti si tenevano alla maggior distanza possibile, quasi che il buco potesse risucchiarti se gli passavi troppo vicino.
L’unico che continuava ad andarci era Zorro.
2.
Avevo conosciuto Zorro l’estate prima, durante un afoso pomeriggio di fine agosto. Mi trovavo all’Outlet per un servizio sui saldi di fine estate. Ero lì da quattro ore per intervistare le persone intente a fare acquisti e i negozianti che commentavano l’andamento delle vendite. Quattro ore a girare per una riproduzione di città in miniatura, con le sue casette dalle finte facciate in stile pseudo-ligure. Ero sudato, stanco e assetato. Avevo messo insieme il materiale per il servizio e non vedevo l’ora di tornare in redazione per montarlo e caricarlo sul sito web del giornale, almeno lì avrei avuto l’aria condizionata. Prima di andare al parcheggio mi ero fermato in un bar affacciato sulla piazza principale. Mi ero preso una bottiglietta d’acqua, con la ferma intenzione di rilassarmi per qualche minuto all’ombra.
Fu in quel momento che vidi Zorro. Se ne stava al centro della piazza, come se il caldo e il sole non esistessero. E sì che era vestito di tutto punto: cappello a tesa larga con una grossa Z argentata, camicia, pantaloni e mantello. Tutti neri. In pieno sole e con il termometro che segnava trenta gradi. Mi ero avvicinato per guardare meglio quel pazzo. Non appena avevo messo piede fuori dall’ombra ero stato assalito da un giramento di testa. Quell’uomo doveva avere un impianto di aria condizionata nascosto sotto il mantello.
Quando gli ero arrivato vicino, avevo visto che armeggiava dietro la schiena. Sotto il mantello aveva uno zainetto che gli scendeva fin quasi sulle natiche. Ne tirò fuori una pompetta e alcuni palloncini, che iniziò a gonfiare per poi sagomarli a forma di spada.
Osservandolo da vicino considerai che non doveva avere più di quarant’anni, il volto abbronzato con gli occhi coperti da una mascherina nera e due baffoni spioventi che gli ricadevano ai lati della bocca. Appesa alla cintura portava una spada inguainata in un fodero. Un vero Zorro in piena regola.
“Se mi vuoi filmare devi darmi dieci Euro.” Mi aveva detto indicando la minicamera che tenevo a tracolla.
“No. Volevo solo dare un’occhiata.”
“Cos’è, non sono un soggetto abbastanza interessante? Ti ho visto intervistare la gente che faceva compere. Mi trovi troppo pittoresco per il tuo servizio da Pulitzer?”
“No, è che ho finito e sto per andare via.”
“Meglio così, tanto in video vengo male. Sono più bello dal vivo.”
“E’ vera quella spada?” Gli avevo chiesto, così tanto per attaccare discorso.
“Come no.” Mi aveva risposto senza smettere di gonfiare palloncini. “La uso per incidere una Z sulla fronte dei miei nemici e per bucare i palloncini ai bambini cattivi.”
Lo ammetto, era una domanda cretina. Ma dopo un pomeriggio sotto il sole a picco non ero in grado di sostenere conversazioni brillanti.
“Scusa se te lo chiedo, ma non hai caldo?” Anche questa non scherzava e in più era anche banale.
“Ho il cappello che mi fa ombra. E sotto ho anche una bandana che mi trattiene il sudore, vedi?” aveva risposto sollevando appena la tesa del cappello.
“Sì, ma tutto vestito di nero, così…”
“Il caldo è uno stato mentale. Non ci devi pensare troppo, come per tutte le cose della vita. Altrimenti un bel giorno ti svegli e, senza che nemmeno te ne sei accorto, il caldo sei diventato tu.”
Era un completo sciroccato, ma c’era qualcosa nelle sue parole che mi sembrava quasi sensato. Forse era solo il caldo. Forse ero un po’ sciroccato anch’io.
“E perché ti vesti da Zorro?” Avevo rilanciato.
“Il costume da Uomo Ragno mi andava stretto. Per non parlare della maschera. Quella sì che tiene caldo, ti copre tutta la faccia. Avrei dovuto tagliarmi i baffi, se no sai quanto sudavo? L’unica alternativa era Capitan America, ma mi è sempre stato sulle palle. Sai, pendo un po’ a sinistra. Educazione di famiglia. Quando da piccolo guardavo i film western insieme a mio nonno, facevamo sempre il tifo per gli Indiani.”
“Non dirlo a me. Ho sempre esultato quando i Sioux di Toro Seduto facevano il mazzo al Generale Custer e al Settimo Cavalleggeri.”
“Custer ha avuto quello che si meritava, te lo dico io. Era un incompetente pallone gonfiato.
“Devo ammettere che sei un tipo curioso. Quasi quasi ti inserisco nel servizio, ma non ti do più di cinque Euro.”
“E sia, l’ingresso nel mondo dello spettacolo è fatto di sacrifici”
Un bambino di sei-sette anni si era avvicinato porgendo una monetina da un Euro, tutta sudata e appiccicaticcia.
“Dalla a lui.” Aveva detto Zorro indicandomi, “E’ il mio agente.”
Il bambino aveva ubbidito, mentre Zorro gli rifilava un’imitazione di spada dall’imbarazzante forma fallica.
“Cos’è questa merda?” Aveva chiesto il bambino rivolgendosi a Zorro.
“E’ la spada di Zorro.”
“Non sembra una spada. Fa schifo!”
“Ascolta sgorbio, se non ti piace puoi sempre darla a tua madre. Forza sparisci. E tu agente, ridagli la monetina, se no il suo Papi mi fa causa.”
Il bambino mi aveva strappato di mano la moneta ed era corso via strillando. A un certo punto aveva gettato via il palloncino e si era girato per mostrarci il dito medio, esibendo un ghigno strafottente.
“Certo che ci sai proprio fare con i bambini.” Avevo commentato
“Faccio schifo. Avrei dovuto portarmi il sax. Con quello sì che me la cavo, ma è troppo ingombrante se devo scappare.”
“Scappare da chi?”
“Dal sergente Garcia.” Aveva risposto, riponendo in fretta palloncini e pompetta nello zaino.
In fondo alla piazza una guardia giurata si stava dirigendo a passi rapidi verso di noi.
“E’ stato un piacere.” Aveva detto Zorro congedandosi. “Al prossimo giro mi devi un’intervista.” Ed era corso via con il mantello che svolazzava alle sue spalle.
Per un attimo me lo immaginai che scappava saltando sui tetti delle casette. Avevo decisamente visto troppi film e il caldo mi stava dando alla testa.
Quando la guardia mi avvicinò, Zorro era ormai sparito.
“Quel tizio non è autorizzato a stare qui. Ho visto che gli parlava insieme. Sa come si chiama?”
Avevo squadrato la guardia. Anche lui vestito di scuro dalla testa ai piedi, con tanto di chepì e anfibi dalla punta rinforzata.
“Diego De La Vega.” Avevo risposto e me n’ero andato, lasciandolo lì come un cretino.
3.
Era stato un aprile piovoso. Poi, verso la fine del mese, le nuvole se ne erano andate e la primavera aveva fatto il suo ingresso trionfale.
Nel frattempo le scimmie scorrazzavano per i giardini come se fossero sempre stati casa loro. L’erba, che nessuno osava più tagliare, cresceva sempre più alta, rendendo il posto simile a una piccola savana.
Come tutti, anch’io evitavo i giardini, anche se un’inspiegabile curiosità mi spingeva a non starne troppo lontano. Un pomeriggio di inizio maggio osai addirittura costeggiare il lato che si affacciava su Piazza Garibaldi.
Avevo passato la mattina in tribunale per seguire la seconda udienza di un processo molto controverso. Dovevo mettere insieme il materiale e scrivere un articolo entro la sera. Mentre percorrevo la piazza per andare in redazione ero stato attirato da una musica in lontananza. Ero stanco e mi bastava una minima distrazione per farmi rallentare il passo. Quando sentii la musica provenire dai giardini mi arrestai di colpo. Chi diavolo era che aveva voglia di suonare in quel posto? La cosa mi incuriosiva e decisi di andare a vedere. Magari avrei potuto ricavarne materiale per un buon articolo.
Mentre mi avvicinavo al viale che tagliava in due i giardini, iniziai a distinguere meglio la musica. Era un pezzo famoso, ma non riuscivo a ricordare il titolo. Proveniva dal fondo del viale. Per scoprire chi o cosa stava suonando avrei dovuto addentrarmi nei giardini. Iniziai a chiedermi se ne valesse la pena. Avevo visto le scimmie una volta sola, due mesi prima, e mi ero sentito pervadere da un’inquietudine mai provata. Me lo ricordavo come se fosse appena successo.
Mi trovavo in un bar vicino al tribunale. Avevo appena finito di seguire la prima udienza del processo e avevo deciso di prendere un caffè prima di tornare in redazione. Stavo per ordinare anche una brioche, quando lo sguardo mi era caduto oltre la vetrina del bar e le avevo viste. Due esemplari adulti che mi fissavano, seduti su una panchina, dall’altro lato della strada, lungo il perimetro esterno dei giardini. Non avevano ringhiato né urlato. Mi avevano solo guardato. Uno sguardo intenso, maligno, pervaso da un’intelligenza più che umana.
Sembrava che fossero lì apposta per me, ad aspettare che mi voltassi nella loro direzione. Un brivido mi percorse la schiena, le gambe mi divennero molli, ma allo stesso tempo era come se si fossero bloccate. Per alcuni istanti, che sembrarono durare un’eternità, non riuscii a distogliere lo sguardo né a muovere un solo passo. Poi un cliente mi urtò mentre andava al bancone e mi ripresi. “Svegliati.” Mi disse in malo modo.
“Scusi, erano le scimmie.” Biascicai imbarazzato.
Il tizio borbottò un insulto a mezza voce, ma non replicò. In quei giorni nominare le scimmie aveva il potere di troncare ogni discussione. Quando mi voltai le scimmie non c’erano più. Non so cosa sarebbe successo se il tizio non mi avesse urtato. Forse avrei continuato a guardarle per ore, forse avrei attraversato la strada per raggiungerle, la tazzina di caffè in una mano e lo sguardo inebetito, incurante delle auto. E poi? Meglio non saperlo. Avevo pagato il caffè e me ne ero andato di fretta. Al diavolo la brioche. Mi era passata la fame.
4.
Ero immerso in questi ricordi mentre percorrevo il primo tratto di viale che attraversava i giardini. Alla mia sinistra si stagliava la sagoma del Teatro Comunale. Aveva riaperto da poco, ma nessuno aveva intenzione di andarci, tanto meno la sera. Le grate di ferro che ne chiudevano le alte porte vetrate gli davano un’aria spettrale, da casa stregata. Stessa cosa per il bar accanto. Chiuso da mesi. “Per ferie”, recitava ufficialmente il biglietto appiccicato sulla porta.
Iniziai a pentirmi di essermi fatto prendere dalla curiosità, ma non riuscivo a fermarmi. Qualcosa mi diceva di continuare. Forse era l’istinto del giornalista, forse quella musica aveva un qualche potere ammaliante, come nella fiaba del pifferaio magico. Per un attimo fui sfiorato dall’immagine di una scimmia che suonava il flauto saltellando, ma scacciai via il pensiero. In primo luogo perché era troppo assurdo, ma soprattutto perché sotto sotto mi spaventava.
Delle scimmie non c’era l’ombra, ma me le immaginavo appollaiate sugli alberi, intente a scrutarmi e pronte a balzarmi addosso da un momento all’altro. Mi sentivo come il protagonista di un film western, mentre attraversa a cavallo la strada deserta di un villaggio e tutti gli abitanti lo spiano dalle finestre, il silenzio rotto solo dagli zoccoli del cavallo e dal tintinnio degli speroni. Con l’unica differenza che io ero a piedi e il silenzio era rotto dalle note di un sax.
Fu quando superai la metà del viale che lo vidi.
E d’istinto tirai un sospiro di sollievo.
5.
Zorro suonava il sax. Era vestito di tutto punto, con lo stesso costume che indossava il giorno in cui lo avevo conosciuto, l’estate precedente. Si trovava alla mia destra, sul marciapiede che costeggiava i giardini, tra il monumento ad Andrea Testore e quello ad Andrea Vochieri. Ai suoi piedi era posata la custodia del sax, aperta come per ricevere le monetine dei passanti. Peccato che in quella strada non ci fossero più passanti da un bel pezzo.
Quando arrivai a pochi passi da lui smise di suonare e sollevò la tesa del cappello in segno di saluto.
“Ehilà agente!” Disse con tono gioviale, “Sei venuto a offrirmi un ingaggio?”
“Ero in tribunale per un processo. Passavo di qui e ho sentito la musica.” Risposi, “Volevo vedere chi era il matto che suona in questo posto.”
“Perché?” Mi chiese con tono stupito, “Cos’ha questo posto che non va?”
“Bé, le scimmie… la storia del cigno…”
Zorro scrollò le spalle. “Le scimmie non sono il vero problema.” Disse lisciandosi i baffi. “E nemmeno il cigno, se proprio vuoi saperlo. Il vero problema è quello che nessuno vuole vedere.”
“Scusami ma non ti seguo.”
“Tutti hanno paura delle scimmie solo perché si vedono. Scommetto che anche tu le hai viste, ma che non sapresti nemmeno descriverle se ti chiedessi di farlo, cosa che non farò perché di queste storie ne ho già sentite abbastanza. Il punto è che le scimmie sono solo la punta dell’iceberg. Saranno anche inquietanti, ma sono innocue.”
“Come fai a saperlo?”
“Vengo qui a suonare tutti i giorni da almeno un mese. I primi tempi mi giravano intorno. Qualcuna mi ha anche mostrato le zanne in segno di minaccia. Poi, visto che non le consideravo e continuavo a suonare, hanno smesso di infastidirmi e sono sparite. Ormai è una settimana che non le vedo più.”
“Sì, ma il cigno allora?”
“Perché tu hai visto le scimmie che lo ammazzavano? Io no. Certo che il nostro cervello funziona in modo proprio elementare. Forse non siamo così evoluti come pensiamo. Arrivano le scimmie. Il cigno viene ucciso e tutti pensano subito che sia colpa loro. Non dico che non ci sia un legame, ma forse le cose sono un po’ più complicate. Forse, e ne sono abbastanza sicuro, chi ha ammazzato il cigno è una creatura a due gambe. E senza la coda.”
“E perché lo avrebbe fatto?”
“Chi può dirlo? Noia. Fumi dell’alcol o di qualche pasticca. Una bravata da adolescenti. O forse un avvertimento in codice a qualcuno che doveva capire e imparare la lezione. Questa città è strana. La mala l’ha sempre tenuta tranquilla perché è un crocevia di traffici. Sai, un po’ come la vecchia storia che ci insegnavano a scuola: la posizione favorevole, al centro del triangolo industriale Genova-Milano-Torino… Questo non vuol dire che la mala non ci sia e non faccia le sue brave porcate, solo che le fa sottobanco, in mezzo alla nebbia, attenta a non smuovere troppo le acque. Ogni tanto però anche qui ci scappa un morto, prende fuoco qualche negozio o ammazzano un cigno. Cose che fanno parte del gioco.”
“Mi sembra un po’ contorto…”
“Perché la storia delle scimmie che si sbranano il cigno ti sembra più normale? E’ che siamo portati a credere alle cose più assurde, ma ci rifiutiamo di accettare realtà più semplici, anche se più brutali. Forse perché altrimenti dovremmo mettere in discussione troppe certezze. E allora meglio fare finta di niente e preoccuparsi solo delle scimmie. Tanto sono così folcloristiche.”
“Ma le scimmie ci sono, si vedono.” Obiettai.
“Sì, si vedono. Ma questo non vuol dire che esistano. Ho iniziato a pensare che siano solo un’illusione.”
“Una specie di allucinazione collettiva?”
“Qualcosa del genere. Questo spiegherebbe il fatto che non ci sono due testimonianze uguali su queste bestie. Ognuno ne dà una descrizione diversa. Una tipa l’altro ieri mi ha detto che non sono scimmie, ma procioni. Forse questa tipa era matta, ma forse lo siamo diventati un po’ tutti.”
“Ma perché?”
“Chi lo sa? Forse c’è stata una fuga di gas tossici dalla fabbrica chimica e ci ha fatti impazzire tutti. Magari arriverà l’esercito, con le tute bianche e le maschere antigas, e ci metterà tutti in quarantena, come in certi film di serie B. Ma io preferisco pensare che la spiegazione sia più sottile. Secondo me c’è qualcosa che rimuoviamo perché non vogliamo accettarlo, ma siccome esiste ed è troppo brutto per essere ignorato, ecco che il nostro cervello ci presenta il conto e iniziamo a vedere le scimmie. Un campanello d’allarme del nostro inconscio, chiamalo come vuoi, non sono uno psicologo, il mio mestiere è suonare il sax.”
“Non saprei… Ma, a proposito, perché suoni il sax qui?”
“All’Outlet non mi fanno più entrare. E poi non lo faccio per soldi. Qui vengo solo a esercitarmi. Nessuno mi dà fastidio e sto all’aperto. E rivendico che questo posto non appartiene alle scimmie, qualunque cosa siano. Guarda ho anche segnato il territorio.”
Guardai alle spalle di Zorro. Era vero. Una grossa Z campeggiava sul tronco di un tiglio, incisa nella corteccia. Quel tipo era davvero fuori di testa.
“Allora la spada è vera?” Chiesi.
“Sei matto? Per chi mi hai preso? Sono solo un buffone vestito da Zorro, mica uno psicopatico che se ne va in giro armato a sbudellare la gente. La spada è di plastica. Quella Z l’ho incisa con un punteruolo. L’albero è grande, non soffrirà.”
“Scusa se te lo chiedo, ma come campi?”
“Ogni tanto, la sera, suono in qualche locale qua e là. Faccio lavoretti saltuari, so fare un po’ di tutto, tipo dare il bianco o potare gli alberi. Per un po’ ho anche lavorato alla fabbrica chimica, ma non è durata molto. Con gli amici avevo detto per scommessa che, piuttosto che continuare a fare un lavoro del genere, sarei andato all’Outlet a vendere le rose vestito da Zorro. Le rose non le ho trovate, così ho ripiegato sui palloncini, ma come sai non è andata bene.”
“Sarà meglio che vada.” Dissi. I discorsi di Zorro iniziavano a mettermi a disagio. Osservandolo con il suo costume, il sax e il parco deserto tutto intorno mi sembrava un semplice matto a cui avevo dato fin troppo ascolto.
“Vai pure, io continuo ad esercitarmi.”
Mi allontanai salutandolo con un cenno della mano. Avevo appena percorso pochi passi quando mi chiamò.
“Agente?”
Mi voltai con un mezzo sorriso. “Dimmi.”
“Che processo hai seguito in tribunale?”
“Infiltrazioni della malavita organizzata in città. Pizzo, politici corrotti, appalti. Roba di questo genere.”
“E ti sembrano le scimmie il problema?”
Si rimise in bocca l’ancia del sax e ricominciò a suonare il motivo che avevo sentito poco prima. Adesso lo riconoscevo. Era Take Five di Dave Brubeck. Mi voltai senza salutarlo e mi incamminai lungo il viale. Niente scimmie, neanche questa volta. La musica mi accompagnò mentre uscivo dal parco e continuai a sentirla, sempre più flebile, mentre percorrevo la piazza diretto alla redazione. Mi rimase incollata in testa per tutto il giorno. La notte, mentre mi rigiravo nel letto cercando di prendere sonno, continuavo a sentirla e ripensavo alle parole di Zorro. Rimasi sveglio a lungo, fino a sentire i tuoni e lo scroscio di pioggia del primo temporale della stagione.
“Non sono le scimmie il problema.” Pensai e finalmente riuscii ad addormentarmi.
6.
Lo trovarono all’alba. Il corpo senza vita era disteso sul monumento a Giuseppe Franzini, nel bel mezzo dei giardini, poco distante dal punto in cui avevo avuto la mia ultima conversazione con Zorro, la settimana prima. Il monumento era un blocco di marmo rettangolare e il cadavere sembrava una vittima deposta su un altare sacrificale. Gli avevano tagliato la testa e i genitali. Ed era nudo. Nessuno sapeva chi fosse. Per il momento almeno.
“Lo hanno conciato proprio male.” Commentò il maresciallo accendendosi una sigaretta.
“Avete idea di chi fosse?” Chiesi accendendo il registratore.
Tutto intorno a noi gli uccelli cinguettavano svolazzando tra gli alberi. Il sole era tiepido e soffiava una brezza leggera. Una perfetta giornata primaverile, se non fosse stato per quel morto ammazzato sopra il marmo.
“Spegni quell’affare e lasciaci lavorare!” Mi aveva risposto il carabiniere. “E’ già tanto se ti ho lasciato stare qui fino ad ora. Non ho ancora capito chi è il mio collega che ti passa le informazioni, ma appena lo becco lo sistemo come si deve, te lo garantisco. E nemmeno tu la passi liscia. Non sono ammessi giornalisti sulla scena del delitto e dovresti saperlo.”
“E io cosa scrivo nel mio articolo?”
“Verrai alla conferenza stampa come tutti gli altri. Adesso lasciaci lavorare. Deve arrivare la scientifica”
Stavo per provare a replicare, ma il maresciallo mi lanciò un’occhiata che poneva fine a ogni discussione. Lo conoscevo da un paio d’anni e sapevo quando era il momento di lasciar perdere. Non lo avevo mai visto così nervoso. E anche gli altri carabinieri sul posto non sembravano tanto tranquilli.
Nessuno osava nominarle, ma era evidente che tutti pensavano alle scimmie. Anche se di loro non c’era traccia. Sembravano essersi volatilizzate. O forse ci stavano solo osservando con i loro occhietti maligni, nascoste nell’erba alta.
“Va bene.” Dissi, “Ma se salta fuori qualcosa fammelo sapere.”
“Ti ho detto di levarti dalle palle. Questa non è roba per giornalisti da quattro soldi come te. Non parliamo della solita banda di spacciatori. Qui c’è qualcosa di diverso.”
“Come fai a dirlo?”
“Lasciami lavorare, ho detto.”
Mi allontanai senza replicare. Era inutile insistere. E poi anch’io stavo iniziando a diventare nervoso. Quel posto mi metteva a disagio e non era solo per il cadavere sul monumento. Avevo percorso pochi passi verso l’uscita dei giardini, quando fui colpito da un nugolo di mosche che ronzava sopra un cestino dell’immondizia. Mi avvicinai con circospezione. A ogni passo sentivo sempre più forte un odore nauseabondo e dolciastro. Mi sporsi appena a guardare nel cestino ed ebbi la conferma di quello che sospettavo. Una testa insanguinata mi fissava con occhi inespressivi, circondata da mosche che le uscivano dalle orecchie e dalla bocca. Mi ritrassi reprimendo a stento un conato di vomito, poi mi girai verso i carabinieri, ancora intenti a studiare la scena del crimine.
“Maresciallo.” Chiamai, “Forse adesso riesci a identificarlo.”
- I delitti si susseguirono per tutto il mese di maggio, al ritmo di tre a settimana, in un crescendo di efferatezza spettacolare. Fu una colossale esibizione di arti tagliati, lingue mozzate, occhi cavati e genitali strappati. I corpi, dodici in tutto, furono ritrovati sempre ai giardini, sparpagliati in vari posti e senza un’apparente logica. Di solito nei film c’è qualche investigatore che prende una mappa, collega i punti in cui vengono ritrovati i cadaveri e riesce a ricavarne qualche brillante deduzione. Non fu questo il caso. Gli assassini e il movente rimasero per sempre ignoti. E nessuno riuscì nemmeno a capire chi fossero le vittime. Gente mai vista prima, mai schedata né conosciuta dalle forze dell’ordine. Il mio barbiere sosteneva che erano alieni, di una razza che si stava scontrando con le scimmie per il dominio del nostro pianeta. Per quale motivo la conquista della Terra dovesse passare dai giardini di Alessandria era un dubbio che non lo sfiorava. Altri dissero che si trattava di una manifestazione dell’Anticristo. Gli omicidi erano sacrifici rituali, compiuti per evocare Satana in modo che potesse manifestarsi e conquistare il mondo. Anche in questo caso partendo dai giardini di Alessandria. Agli angoli delle strade iniziarono a comparire predicatori improvvisati, che recitavano a memoria passi dell’Apocalisse. Nel frattempo le scimmie erano scomparse. Dopo il primo delitto nessuno le aveva più viste. Al terzo morto tutti se le erano già dimenticate. I misteriosi omicidi avevano guadagnato il primo posto nella classifica delle paure collettive.
La polizia, come si suol dire, brancolava nel buio. Il maresciallo si era fatto sempre più evasivo. Non rispondeva alle mie domande e organizzava conferenze stampa fumose, da cui non emergevano dati interssanti. Sembrava spaventato e mi fece sapere che aveva chiesto il trasferimento a Trento.
8.
Zorro continuò a suonare ai giardini. Dopo il primo morto ammazzato i carabinieri lo avevano interrogato per ore. Il fatto che, nei giorni precedenti, fosse stato visto andare e tornare più volte dai giardini lo rendeva un possibile testimone e un potenziale sospetto. Alla fine avevano concluso che era solo un povero matto, il cui unico legame con la scena del crimine era il fatto che passava le sue giornate a suonare il sax lungo il viale. Gli avevano intimato di non farsi più vedere in quella zona, che era diventata pericolosa e rischiava grosso a continuare ad andarci. Per un po’ aveva seguito il consiglio, poi, all’incirca dopo il terzo omicidio, aveva ripreso a suonare vicino all’albero marchiato con la Z.
Passavo a salutarlo quasi tutti i giorni. Un po’ perché cercavo di capire se avesse visto qualcosa, un po’ perché i giardini ormai esercitavano su di me un’attrazione morbosa. Raccontavo a me stesso che ci andavo solo perché ero animato dall’istinto del giornalista investigativo, ma sapevo benissimo che dalle conversazioni con Zorro non avrei mai potuto ricavare nulla.
Mi aveva detto che non aveva paura. Secondo lui l’assassino, o gli assassini, chiunque fossero, commettevano i loro delitti altrove e portavano i corpi nei giardini di notte.
“Come un gatto che ti lascia il passerotto morto sullo zerbino, per farti sapere quanto è bravo.” Aveva commentato lisciandosi i baffi.
“E tu come fai a saperlo?” Gli chiesi incuriosito. Era un pomeriggio di metà maggio, alcuni giorni dopo il sesto omicidio.
“Sto qui tutto il giorno, li avrei visti. E poi i morti sono perfetti sconosciuti. Chiunque li abbia uccisi usa i giardini come discarica. Forse perché ormai sono un posto abbandonato. Forse perché vogliono mandare segnali a qualcuno. Sai com’è. C’è chi manda lettere e chi morti ammazzati. In certi casi sono molto più eloquenti.”
“Sembra che sai quello che dici.”
“Ascolta agente. Io mi limito a guardare quello succede e a unire i puntini. Cosa che, come giornalista, dovresti fare anche tu. E anche il tuo amico maresciallo dovrebbe farlo. Anzi, probabilmente lo ha già fatto ed è per questo che ha paura.”
Rimasi in silenzio per un attimo, cercando di riflettere sulle parole di Zorro. Aveva espresso le sue opinioni con la massima calma, come stesse parlando del tempo.
“E le scimmie?” Chiesi tanto per rompere il silenzio.
“Mai più viste. E tu?”
“No, non le ha più viste nessuno. Forse erano davvero un’allucinazione collettiva.”
“Chissà. Ma quello che l’ha generata è più presente che mai. Fidati.”
Di nuovo non trovai le parole per replicare. Matto o non matto, Zorro riusciva sempre a darmi argomenti per riflettere. O, se non altro, per pormi delle domande.
“Si è fatto tardi. Ora devo andare. Ci vediamo nei prossimi giorni.”
“Non per molto ancora. Tra qualche settimana mi trasferisco in riviera. Vado a suonare sui lungomare. Si guadagna abbastanza. Ritornerò a fine settembre. Forse. Se non mi fermo da qualche altra parte.”
“Vengo a salutarti quando parti.” Dissi mentre mi allontanavo.
Zorro mi salutò con un cenno della mano e iniziò a suonare. Sempre Take Five. Lo suonava in continuazione, concedendosi ogni tanto qualche breve variazione sul tema, per poi tornare quasi subito alla linea melodica principale. Uscii dai giardini e andai verso la redazione, con la musica che mi seguiva, quasi a non volermi più lasciare andare.
9.
L’ultimo morto fu trovato ai primi di giugno, impiccato al monumento equestre ai caduti, quasi di fronte al tribunale. Il corpo penzolava inerte dal collo del cavallo, appena mosso dalla brezza del primo mattino. La testa reclinata del cavallo di bronzo fissava il cadavere come una belva che si accingeva a sbranare la preda.
Quel giorno si tenne l’ultima udienza del processo sulle infiltrazioni della criminalità organizzata in città. Giudici e Pubblico Ministero entrarono in tribunale proprio nel momento in cui, dall’altro lato della strada, i pompieri tiravano giù il morto servendosi di un cestello. L’udienza fu breve e inconcludente. La corte deliberò di riaggiornarsi a settembre, in vista della pausa estiva.
Nei mesi successivi il processo si sgonfiò come un soufflé cotto male e non se ne parlo più. In realtà nessuno ne aveva mai parlato molto. Un mio articolo sulla sagra del salamino di mulo registrò molti più condivisioni sui social network di tutti quelli sul processo messi insieme. Anche delle scimmie non si parlò più, soprattutto perché sembravano svanite nel nulla.
Come erano cominciati, gli omicidi cessarono. Dopo le prime settimane senza morti ammazzati la città tirò un sospiro di sollievo. L’estate sembrò prendere il sopravvento su tutte le preoccupazioni e la voglia di spensieratezza scacciò via le paure dei mesi precedenti. A metà giugno tutti si erano già dimenticati le scimmie e gli omicidi. I predicatori sparirono dalle strade e il mio barbiere tornò a parlare di calcio e donne. E quando, verso la metà dell’estate, un paio di capannoni industriali presero fuoco, nessuno sembrò preoccuparsene. Con il caldo, si sa, certe cose possono succedere.
Il maresciallo, nel frattempo, si era trasferito a Trento da un pezzo.
10.
Andai a salutare Zorro alla stazione in una calda mattina di fine giugno.
Quando arrivai al binario non lo riconobbi subito. Per la prima volta era vestito come una persona normale. Indossava un paio di jeans scoloriti e una maglietta di un colore ormai indefinibile. L’unico dettaglio che aiutava a collegarlo al suo personaggio erano i baffoni spioventi e la custodia del sax, che reggeva nella mano destra.
“Buondì agente” Mi salutò sorridendo.
“Vedo che sei in borghese.”
“Avevo paura di spiegazzare il costume sul treno. Lo tengo lì dentro.” Disse indicando una borsa ai suoi piedi.
“Peccato. Avrei voluto vedere la faccia del controllore.”
“Mi hai preso per un fenomeno da baraccone? Io sono uno Zorro autentico. Mi metto il costume solo per suonare il sax e raddrizzare torti.”
“Non lo metto in dubbio. Pronto per la riviera?”
“Sempre. Dopo tutto quello che è successo in questi mesi non vedo l’ora di mettere un po’ di chilometri tra il mio culo e questa città. E se vuoi il mio consiglio faresti bene a farlo anche tu.”
“E dove lo trovo un altro giornale che mi prende? E poi adesso le cose sembrano a posto. Sono settimane che non succede più niente.”
“E’ questo il punto. Non succede niente di visibile. Ma tieni gli occhi aperti. Ci sono strani movimenti nella nebbia.”
“Non c’è nebbia, è estate.”
“In questa città c’è sempre nebbia. Ma non pensarci troppo. Altrimenti, prima che te ne accorgi, la nebbia sei tu.”
Scoppiai a ridere, mentre il treno arrivava sferragliando. Si arrestò con una brusca frenata che riempì l’aria di limatura di ferro. Zorro raccolse la borsa e se la mise a tracolla.
“E come va la tua corsa per il Pulitzer?” Mi chiese salendo sul predellino.
“Il direttore mi ha cassato un’inchiesta sulle estorsioni ad alcuni artigiani della provincia. Mi ha detto che non ci sono abbastanza elementi. Meglio concentrarsi sulle sagre dell’estate. La gente vuole divertirsi.”
“Stai in campana.” Mi disse salendo sul predellino e alzando una mano in cenno di saluto. “E se hai bisogno di aiuto fai un fischio. Zorro accorre sempre ad aiutare chi ha bisogno. Anche dalla riviera.”
“Sì, ma come faccio a trovarti? Non so nemmeno il tuo vero nome.”
“Diego De La Vega.” Mi rispose con un sorriso sornione, mentre il portellone del vagone si richiudeva e il treno si metteva in movimento.
Quando uscii dalla stazione il sole si era fatto ancora più cocente. Dovevo andare in redazione, per intervistare un presidente di Pro Loco sulla sagra dei gnocchi, e non ne avevo alcuna voglia.
Davanti a me c’erano i giardini. Poche settimane dopo l’ultimo omicidio, la gente aveva ripreso a frequentarli. I primi erano stati gli spacciatori, poi, man mano, erano tornati a farsi vedere anche le badanti dell’est e i pensionati. La città sembrava tornata normale.
Percorsi il viale che attraversava i giardini. La Z incisa da Zorro con il punteruolo campeggiava ancora sul tiglio. Osservandola mi scappò un involontario sorriso. Quando arrivai all’altezza del teatro vidi che il bar accanto aveva riaperto. Ai tavolini del dehors erano sedute diverse persone, intente a prendere l’aperitivo. Il loro chiacchiericcio si confondeva con il cinguettio degli uccelli, trasmettendomi un senso di quiete. Decisi di fermarmi a prendere una birra fresca. L’intervista sulla sagra dei gnocchi poteva aspettare. Stavo passando accanto al teatro, quando notai con la coda dell’occhio un movimento sopra la mia testa. Sollevai lo sguardo incuriosito e subito mi pentii di averlo fatto. Una scimmia mi fissava dall’alto della tettoia che sovrastava l’ingresso del teatro.
Mi scrutava con occhi maligni e un ghigno sarcastico, come se volesse prendersi gioco di me. Una serie di grugniti mi spinse ad alzare ancora di più lo sguardo e mi sentii raggelare il sangue nelle vene. Saranno state almeno un centinaio, appollaiate sul tetto, sui davanzali dei grandi finestroni che illuminavano l’atrio, aggrappate ai cornicioni e alle grondaie. Non appena incrociai i loro sguardi, i grugniti cessarono e rimasero a osservarmi in silenzio, sogghignando.
Mi voltai verso il bar. Nessuno sembrava badare a me. Tutti continuavano a chiacchierare e sorseggiare i loro aperitivi come se niente fosse. Avrei voluto mettermi a gridare e avvertire tutti che le scimmie erano lì, a pochi passi da loro. Che erano tornate o che, forse, non se ne erano mai andate, ma sapevo che sarebbe stato del tutto inutile.
Ormai le vedevo solo io.
FINE