Il tema è caldo.
A metà tra “Giornata della Memoria” e “Giornata del Ricordo” si presenta all’attualità il caso Macerata.
Il corpo di una diciottenne – forse morta per un’overdose – viene smembrato e accuratamente riposto in due valigie da uno – forse due o addirittura tre – spacciatori nigeriani.
Nelle ore successive un giovane italiano – già militante della Lega – scorrazza per la città facendo il tiro al bersaglio su alcuni gruppi di immigrati ferendone sei, cinque uomini e una donna.
Certamente uno scontro tra razze.
Probabilmente però la parola razzismo non è adeguata o, se non altro, non spiega compiutamente.
Una piccola storia.
C’è un giardino in pieno centro – da pochi anni rimesso a nuovo con alberi, piante, giochi per bambini e panchine per anziani – inutilizzabile dalla società civile.
Questo appezzamento di verde, a 50 metri dalla stazione ferroviaria, è circondato da alcuni complessi scolastici frequentati da centinaia di bambini e ragazzi dai tre ai quattordici anni.
Durante le pause didattiche un professore si affaccia alle grandi vetrate della scuola e osserva questo giardino.
Qua e là crocchi di ragazzi di colore che sembrano discorrere del più e del meno, talvolta con la musica a palla ballano, altre volte arriva qualche personaggio caucasico che scambia strette di mano, non sempre a mani vuote.
La mattinata è lunga ma non è difficile urinare e defecare creando un minimo di intimità, con tutto quel verde a disposizione.
“È sempre così, qui. Sai quante volte abbiamo avvisato?” dice al professore la collaboratrice scolastica ormai disillusa.
Questo accade a Savona, dove accade ciò che accade anche a Macerata e certamente in numerose altre città italiane.
La stanchezza dei cittadini è però una colpa poiché frutto di una supina accettazione.
Abbiamo sbagliato, ne abbiamo colpa.
Abbiamo privilegiato i dibattiti televisivi e i discorsi sui social piuttosto che concentrarci su una reale politica di inclusione.
A scuola, coi bambini ed i ragazzi si parla da anni ormai di diversità, di apertura, di accoglienza.
E i ragazzi capiscono e sono più tolleranti degli adulti.
Ma ciò non basta.
Perché gli stessi bambini e ragazzi che a scuola vivono la valutazione come un obiettivo primario, vivono anche e ancor più il senso di ingiustizia sociale in maniera soffocata ma profonda.
Se saremo fortunati, tra qualche anno costoro cambieranno il mondo; nella peggiore delle ipotesi invece avranno un giardino dove passeggiare ballando e scambiandosi strette di mano, senza fare differenze di colore.
Foto da Il Secolo XIX