Cesareo per molti, quasi tutti, è il chitarrista degli Elii: nome d’arte di Davide Civaschi (Cesareo), abbreviazione di Elio e le storie tese (gli Elii), nome d’arte di Stefano Belisari invece Elio, ma se dici Stefano Belisari lo sanno in pochissimi, e quasi tutti pensano che lui si chiami davvero Elio.
Così come in pochissimi sanno che c’è già stato un Cesareo, ma non suonava la chitarra e manco era italiano.
Cesáreo (con l’accento sulla á per la precisione) Onzari era infatti nato a Buenos Aires, all’inizio del 1903, e se non avesse segnato contro l’Uruguay un giorno di ottobre del 1924 non lo ricorderemmo (non che lo ricordiamo granché, comunque). Carlos Gardel è morto giovane e bello, come si confà a una leggenda. Morto a Medellín per le conseguenze di un incidente aereo, durante una tournée.
Era come al solito in giro per il Sud America a cantare per il pubblico adorante ‘Volver’ e altri struggenti tanghi che nessuno mai, né prima né dopo, saprà interpretare come lui.
Morto in Colombia dunque, nato invece… ecco, pure qui un argentino e un uruguagio non sarebbero mai d’accordo. Bonaerense, anche se nato a Tolosa figlio di una relazione adulterina, per ogni argentino. Uruguagio della cittadina di Tacuarembó per gli abitanti della nazione (ma, come dice il grande Federico Buffa, gli argentini considerano l’Uruguay una loro provincia distaccata) a est del Río de la Plata.
Una rivalità, tra le due nazioni, che diventa terribilmente seria quando si tratta di fútbol. Terribilmente seria.
Gli uruguagi (sempre Buffa) “sono convinti (ed hanno ragione) di aver vinto di più degli argentini. Solo che il mondo li sottovaluta da sempre“.
Sommano ai due mondiali vinti nel 1930, la prima edizione con finale proprio contro l’albiceleste, e nel 1950, quello del “Maracanazo”, anche le due Olimpiadi vinte prima della Coppa Rimet, quella del ‘28 e quella di quattro anni prima. Sì, quel 1924 in cui l’altro Cesáreo (quello con l’accento sulla á) gli segnò, un giorno di ottobre.
La sfida tra le due nazionali sudamericane è la prima in assoluto che si è disputata fuori dalle isole britanniche, una storia che iniziò insieme al ventesimo secolo e conta ormai quasi duecento duelli (scrivo duelli perché di quello si tratta, quasi sempre).
Quella partita del’24, una delle 8 (otto!) sfide tra le due nazionali in un solo anno, finì 2-1 per l’Argentina, finì (ovviamente) a botte, e il gol di Cesáreo resta nella storia perché lo segnò direttamente su calcio d’angolo e, dato che lo subirono i recenti vincitori delle Olimpiadi, diventò appunto “gol olimpico” come tuttora diciamo quando qualche calciatore riesce in questa prodezza balistica.
“Il calcio d’angolo è come la punizione dal limite dell’area. Non cambia niente, devi beccare la porta… Oggi li tirano al contrario, col piede invertito, a uscire. Occasioni sprecate.”
Massimo Palanca ha il 37 di piede. Il 37 è il numero dei campionari, che ovviamente si facevano sulla base del numero di scarpa più frequente (oggi non è neanche più così, le nuove generazioni hanno piedi più grandi). Ma il 37 sono i campionari delle scarpe da donna. Quelle da uomo sono 42.
Massimo Palanca, con quel piedino piccolo, unico aspetto femminile in un uomo con baffoni, sopracciglia unite a gronda e capelli ricci, calciava soavi calci d’angolo, ed era capaci di infilarli con parabole imprendibili alle spalle del portiere. Resta lui il miglior esecutore italiano di gol olimpico. In una carriera, eccezionale con la maglia del Catanzaro mentre fallì il successo con la grande squadra nelle due stagioni andate male al Napoli, ne mise a segno 13.
Fare un gol direttamente da calcio d’angolo è difficile, e infatti succede molto raramente. Domenica l’altra, invece, ne hanno fatti due in meno di cinque minuti uno dall’altro, nello stesso incontro, quello che un tempo chiamavamo “derby dell’Appennino”, la partita tra Bologna e Fiorentina il cui cantore più epico resta comunque lo Stefano Benni di Bar Sport (“Il Bologna perse sei a zero dopo essere stato lungamente in vantaggio”).
Non credo che i due autori di gol olimpico pensassero di finire nel grande libro del fútbol, prima di quel che è successo nei minuti finali del primo tempo.
Val la pena di raccontarlo: con una parabola che ha incocciato il secondo palo il gol olimpico l’ha segnato Jordan Vererout, buon centrocampista, tecnico, cresciuto nella media Ligue 1 tra Nantes e Saint Etienne, e subito gli ha replicato il cileno Erick Pulgar (un sudamericano non poteva mancare), ai felsinei da tre anni nella sua prima esperienza europea, infilando il primo palo con un piccolo aiuto del portiere dei viola.
Anche loro ora hanno una citazione nella pagina che inizia con la parabola imprendibile di Cesáreo (quello con l’accento sulla á).