Per l’appuntamento settimanale con AlLibri, abbiamo il piacere di segnalare l’ultimo romanzo di Giuseppe Conte, Sesso e Apocalisse a Istanbul (edito recentemente da Giunti). Oltre che autore di romanzi (da “Primavera incendiata” a “Fedeli d’amore”, dal “Terzo ufficiale” a “La casa delle onde” sino a “Il male veniva dal mare”), Giuseppe Conte segna il mondo della poesia (la sua opera completa è stata raccolta nell’Oscar “Poesie 1983-2015).
Sesso e apocalisse a Istanbul è un romanzo coraggioso e ricco di complessità e di furore, di dolore e di amore per la vita. Racconta di Giona Castelli, libraio genovese che ha appena dovuto chiudere la sua attività in crisi, il quale accetta l’invito per un soggiorno a Istanbul da Veronica Solari, detta Vero, con cui ha una relazione tenuta segreta. Vero è una donna ricchissima, con un immaginario erotico fantasioso e scatenato, lettrice compulsiva di romanzi, sposata con un importante uomo politico.
Il progetto della coppia è realizzare un sogno di sesso e di trasgressione, ma Giona è anche un intellettuale raffinato e, in attesa della donna va a trovare lo scrittore amico Ilhan Durcan, il traduttore arabo di Henry Miller Khaled Nejim e Giuseppe Maria Rizzi, detto Ritz, un amico d’infanzia, ora direttore dell’Istituto Italiano di Cultura.
Rizzi è stato per tutta la vita un accanito cercatore di avventure omosessuali estreme, ma adesso ha smesso e confida a Giona di volersi sposare con il suo fidanzato.
E’ in un’atmosfera così, cosmopolita, avanzata, intellettualmente e sessualmente libera, che comincia l’avventura di Vero e Giona, ma presto questa vacanza erotica, questo scatenamento dei sensi che, per potersi schiudere aspetta solo il tepore e il profumo dell’Oriente e l’accompagnamento delle voci di quei poeti che più hanno saputo cantare le forze e il languore dell’eros, si tinge di nero.
L’ossessione di Vero, quella di essere posseduta da uno sconosciuto, prende le forme di un ragazzo italiano, genovese anche lui, investito senza danni dall’auto che trasporta la donna dall’aeroporto in albergo. È un incontro che si rivelerà fatale, un cappio che si stringe attorno al collo, uno dopo l’altro, di tutti i protagonisti.
Mescolando la sua conoscenza profonda delle evolutissime tradizioni che, al di sotto della cappa del conformismo e dell’integralismo, ancora innervano la vita culturale dell’Islam, con i fatti della cronaca più recente e i fantasmi dell’immaginazione erotica con le paure, le angosce dell’Occidente, Giuseppe Conte ha costruito questo romanzo.
di Giuseppe Conte
“Dal suo piccolo hotel al lussuoso cinque stelle scelto da Vero non c’è molta distanza.
Giona Castelli ci va a piedi, con quella borsa informe di tela nera come unico bagaglio, fischiettando le note di Lullaby of Birdland, quelle con cui si era congedato Ilhan Durcan, e sbocconcellando un anello di pane al sesamo acquistato su una bancarella.
Non è un buon biglietto di presentazione, per i valletti in livrea che aspettano le limousine in arrivo davanti alla porta girevole dell’hotel, né per gli impiegati in abito nero della portineria tutti impettiti, né per i facchini agli ordini del bell captain che si augurano bauli e valige pesanti da salire in camera con il carrello, e una mancia proporzionata alle dimensioni del carico.
Giona si sente trattato da paria.
Ma non se la prende.
Pensa che lo è, alla fine.
Quel lusso, il salone arredato con mobili modernissimi che mescolano l’high-tech con l’antico, divani e poltrone dalle spalliere solenni, i cuscini di un colore neutro, madreperlaceo, i lampadari di cristallo, gli scaffali su cui troneggiano massicci libri d’arte, di quelli solitamente illeggibili, non è fatto per lui.
Ha in tasca pochi dollari, dopo l’esborso assurdo della sera prima, una carta di credito che si appoggia a un conto corrente vicinissimo al rosso, qualche lira turca, buona al massimo per comperare un anello di pane al sesamo come quello che continua incurante degli sguardi severi a mangiucchiare, o una pannocchia di granoturco cotta sul carbone.
Persino uno di quei lustrascarpe, quelli con il banchetto a V tutto pieno di decine di vasetti dalle più varie dimensioni chiusi da brillanti coperchi di ottone, gli sembra al di sopra delle sue possibilità. E poi lui ha ai piedi dei mocassini scalcagnati, che nessuna arte potrebbe riportare alla minima lucentezza.
La camera non è ancora pronta. Capita negli alberghi, più sono di lusso più capita.
Giona chiede di depositare la borsa, anche se è così leggera che potrebbe portarsela dietro.
E se ne esce, salutando il valletto in livrea fermo davanti alla porta con una benevola pacca sulla spalla. Ha tutto il tempo di andare a trovare Ritz.
Gli telefona mentre cammina per Isticlal Caddesi, trascinato dalla folla, preso dalla musica della strada, composta da un mix di sferragliamento del tram, voci umane che si accavallano e moltiplicano, colpi di tacchi contro l’asfalto, rimbombo da dentro i negozi di radio accese a tutto volume, stridere di carretti, sirene di auto della polizia.
Deve urlare per farsi sentire dalla segretaria di Ritz, farsi confermare l’appuntamento.
Per raggiungerlo, c’è da percorrere tutta Isticlal Caddesi.
Gli piace perdersi in quel caos anonimo ma vitale. È come se gli individui venissero versati in un frullatore invisibile e ne uscissero in poltiglia, ma dolce come quella di uno smoothie.
Si sente un niente, un senza terra e un senza nome. Ma senza sofferenza.
Eppure è contento di essere lì. E di essere vivo.
Ad aspettare Vero.
Non gli resta altro, adesso.
Vero e le sue notizie sullo Sconosciuto – quante volte lo aveva fatto morire di piacere con le sue invenzioni sempre più crude, sempre più coinvolgenti, di incontri con Sconosciuti sempre più dotati di magnetismo silenzioso, di potenza animale, di un glande dalle dimensioni inimmaginabili.
La fantasia di Vero non si poneva limiti.
Giona si domandava cosa di vero e di oscuro si nascondesse dietro quei racconti, cosa poteva realmente essere capitato a Vero nei portoni di certi vicoli in ombra perpetua, stretti che in due ci si passerebbe appena, così intricati e a serpentina nel centro antico della loro città, o nelle cabine, nelle cucine, nelle toilette delle barche su cui lei e il senatore compivano frequenti crociere. C’era stato davvero qualche immigrato, qualche marinaio che l’aveva presa senza una parola, con quella fame, e le aveva dato quel piacere che continuava a cercare rievocandolo alle orecchie di Giona? Il sesso, il desiderio, la fame di piacere, non fanno sconti a nessuno. Giona lo ha sempre pensato.