È un momento della mia vita, il caro direttore e amico Ettore Grassano lo sa, in cui sono impegnato con almeno tre scadenze a tempo ravvicinato, e non posso dedicarmi a produrre editoriali, per capirci, “nuovi”. Quindi, più o meno elegantemente, riciclo. Il doverlo fare in questo caso riserva di sicuro una sorpresa, ovvero: il pezzo di oggi l’ho scritto otto anni fa. E l’inevitabile domanda, in questi tempi in cui il tempo brucia con troppa velocità, istanze e convinzioni, è la seguente: hanno ancora senso queste riflessioni? Il Superstite lo chiede a voi.
Si può vivere senza scrivere? Si può rinunciare a una piacevole ossessione che ci ha regalato in passato molte soddisfazioni e persino qualche guadagno non trascurabile? Parlando solo a nome mio, senza la presunzione di rappresentare chissà quale categoria di strampalati professionisti, penso proprio di sì.
Anzi, vado oltre. Penso che la scrittura, come un’amante infuocata ed esigente o come, appunto, una droga che regala sgradite assuefazioni e dipendenze, si possa equiparare a un’esperienza a tempo finito. L’hai fatta, ne hai assaggiato il gusto, poi giunge il libero arbitrio: puoi chiudere o puoi andare avanti. Precisando forse inutilmente che sto parlando di scrittura riferita alla letteratura (e non alla saggistica, com’è il caso di questo pezzo in produzione…), se decidi di proseguire è perché dentro ti stanno bruciando idee, pulsioni, “messaggi” – per capirci – da lanciare, o più semplicemente hai bollette da pagare, fan da accontentare, un editore al quale hai fatto guadagnare qualche denaro che non guasta mai.
Ne conosco pochi che in Italia si mantengono con la scrittura, però esistono e sono degli eroi. Però ne conosco molti che hanno anche avuto diversi apprezzamenti al loro esordio e poi hanno deciso di smettere, comunque.
Perché, vi chiederete? I casi sono diversi e tutti interessanti nelle loro dinamiche. C’è chi ha smesso perché la vita reale ha preso il sopravvento. Perché la magia è finita subito al secondo libro. Chi ha scoperto di non avere più nulla da dire. Chi ha reputato i numeri del proprio successo così scarsi da non valere più la pena di sudare ancora notti e giorni sui fogli e sulle schermate.
Il dato comune smentisce il grande Camilleri quando afferma che scrivere è la cosa più divertente che un uomo possa fare o concepire. Di sicuro per lui lo è, con le centinaia di migliaia di copie che vende. In tutta sincerità lo è anche per me che sto agli antipodi del buon Andrea in termini di resa. Però scrivere non è così divertente. Scrivere è un lavoro, uno sporco lavoro che non è affatto figo come s’illudono che sia tutti coloro che scrivono per essere fighi. Scrivere è un massacro e, quando e se lo fai con sincerità e guardandoti dentro, ne puoi uscire con le viscere massacrate, le ossa rotte e con parecchi nuovi nemici. Ovvio, c’è chi scrive dei cavoli suoi cui non frega niente a nessuno e c’è che si cimenta con il giallo, la spy story e i vampiri maliardi: va quindi da sé che il principio del “massacro” non possa risultare estensibile a tutti.
Però, insomma, chi ci mette il cuore o le palle può infartuarsi o trovarsi di colpo eunuco. Il rischio sussiste. E poi, in letteratura, il pubblico giudicante spesso assomiglia a quello antico delle arene con i gladiatori. Gode soltanto alla vista del sangue.
In una prossima puntata vi racconterò qualcosa su coloro che hanno smesso e hanno abbandonato la letteratura, senza sentirsi per questo orbati di linfa vitale. Come dicevo, scelte interessanti, forse salvifiche. Anche perché in questa nazione tutti cantano, tutti ballano (sin dalle più tenera età) e tutti scrivono. Escono 60 titoli al giorno, giusto per rendere l’idea.
Chi riesce a leggere tutto quel che esce? Se poi ci mettete il dato incontestabile che siamo penultimi in Europa per l’acquisto i libri pro capite (qualcosa come 2/3 di libro a testa…), è sempre più apprezzabile il punto di vista di coloro che smettono. Via dalla pazza folla!