“Dopo il riposo Panatta e Bertolucci, che erano entrati in campo con una provocatoria maglia rossa, si ripresentano in blu” (La Stampa, 19 dicembre 1976)
Ci sono poche immagini della finale, e all’epoca il colore delle magliette di Panatta e Bertolucci lo conosciamo solo, en passant, leggendo i giornali, se ne parlerà e si spiegherà per bene il significato politico del gesto, e si conoscerà la storia (fu Panatta a pensarlo e a proporlo al mite compagno di doppio) solo anni dopo.
Ci sono poche immagini della finale: “La Rai annuncia che non manderà inviati e telecamere a Santiago. «Non è un obbligo trasmettere Cile-Italia» dice Andrea Barbato, direttore del Tg2.” Anche dopo che abbiamo deciso di andare a giocare le polemiche non sono dunque sopite.
Oltretutto la Rai ancora trasmette in bianco e nero, i programmi a colori partiranno solo nel 1977, con un ritardo decennale rispetto agli altri paesi europei. Il “partito” di chi si oppone alla tv a colori è variegato, da Ugo La Malfa (“uno sperpero di denaro, una scelta superflua, un incentivo al consumismo e una spinta verso l’alto dell’inflazione: “Il paese scoppia,” aveva detto nel 1969 senza peraltro mai cambiare idea, “non riesce a risolvere i suoi problemi di fondo. E gli vorremmo dare la televisione a colori!”) alla Cgil.
Vediamo peraltro le trasmissioni della Svizzera italiana, e ricordo ancora benissimo la magia di Wimbledon la prima volta a colori: finale tra Arthur Ashe e Jimmy Connors nella sala dell’albergo in cui ero in vacanza a Scopello.
“Michele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo tuttora in voga
Mentre io aspettavo te.”
Mio fratello è figlio unico, secondo album di Rino Gaetano, viene pubblicato nel 1976.
Non è il classico cantautore, per origine, per età, soprattutto per cultura, e per cultura musicale. Scrive canzoni spesso giudicate nonsense, per cui si parla di “follia creativa”.
In realtà riesce, col sorriso, a trattare argomenti molto seri in modo unico, come per esempio dimostra la canzone che dà titolo al disco, una delle sue più note (e a ribadire il tema l’immagine di copertina, il cane solissimo sotto la luce di un riflettore).
L’elenco di quel che succede (ed è successo) nel mondo “mentre io aspettavo te” di ‘Sfiorivano le viole’ è da riascoltare (sempre con nuove scoperte) più e più volte.
Pochi anni dopo morirà in un incidente d’auto, all’alba, da solo, tornando da un giro per locali di Roma.
“Mario Belardinelli, che era solito coniare un epitaffio per ognuna delle sue creature, a Paolo disse che in sala parto «Barbetta» con lui aveva esagerato nel dosare il talento, così pensò di riequilibrare il genio affibbiandogli un fisico da schiappa.”
Paolo è Bertolucci, il compagno di doppio di Adriano. È un cicciottello col braccio da numero uno al mondo. Il giorno del doppio, decisivo perché al venerdì abbiamo vinto entrambi i singolari, gioca una delle partite meno belle di una carriera in Davis straordinaria e, una volta tanto, sarà Adriano a trascinare lui e non il contrario come sovente è successo.
Gli avversari, dobbiamo dircelo, non sono certo irresistibili.
Il loro numero uno Jaime Fillol, “un prodotto dell’aristocrazia cilena”, peraltro ottimo doppista, arriva fino al numero quattordici al mondo, nel marzo del ‘74.
Patricio Cornejo al massimo in carriera arriva al posto 65, nello stesso anno. È anche l’anno in cui perde ai quarti al Roland Garros, suo miglior risultato in un torneo di prestigio, dopo avere battuto agli ottavi proprio Fillol.
Fillol e Cornejo un primato ce l’hanno. In un incontro di Davis del ‘73, un doppio contro Stan Smith per l’occasione insieme a Van Dillen, vincono il secondo set 39-37, record assoluto di game giocati (allora non si faceva mai il tie-break). Avanti di due set, perdono 6-3 al quinto.
Il capitano non giocatore è Luis Ayala: “il predestinato di talento e fortuna che insegna tennis per sette ore al giorno sotto il sole di Miami ai ricchi americani”. Ha un precedente con Pietrangeli: Nik lo ha battuto nella finale del Roland Garros nel 1960, al quinto dopo essere stato sotto di due set a uno. L’anno dopo Ayala aveva accettato le offerte di Jack Kramer unendosi ai pro, contrariamente al nostro che, incassato un acconto, ci ripensò rimanendo tra i dilettanti.
Jack Kramer, figlio di un ferroviere, nato a Las Vegas e cresciuto a Los Angeles, dominò il tennis nel 1946 e nel ‘47. Quell’anno vinse la finale di Wimbledon in soli quarantacinque minuti. Aveva portato con sé la moglie Gloria. Per pagarle il viaggio aveva dovuto vendere l’auto, e per mantenersi lavorava in una fabbrica di inscatolamento della carne. Capì che avrebbe potuto guadagnare molto diventando professionista. La prima partita da pro la giocò al Madison Square Garden contro Bobby Riggs (quello che negli anni settanta inscenò “la sfida dei sessi” contro Billie Jean King). Nevicava, e comunque accorsero quindicimila spettatori. Fu l’inizio di una tourné in cui si affrontarono quasi cento volte. Kramer ne guadagnò più di 100.000 dollari, poi 70.000 quando sfidò Pancho Gonzalez. Somme enormi. All’inizio degli anni cinquanta diventò l’organizzatore dei tour dei professionisti, con in tabellone i giocatori più forti, esclusi dai più importanti tornei ma capaci di attirare enormi folle ai loro incontri. Insomma, l’uomo che più di tutti ha cambiato la natura del tennis, fino al 1968 quando finalmente gli organizzatori dei grandi tornei cedettero e la partecipazione diventò “Open”.
Il doppio ebbe una sua storia. Fu il match della maglietta rossa (scrive Panatta con Daniele Azzolini nella sua biografia). Fresca di bucato, attillata come andavano allora, con il marchietto dello sponsor italiano ben in vista; ma rossa, decisamente rossa. Si sarebbe potuto dire, “sin troppo rossa”. Terminai la vestizione quasi di soppiatto in un angolo dello spogliatoio, poi mi parai d’improvviso davanti a Bertolucci, seduto poco distante intento agli affari suoi. “Eh?” gli feci […] dai il massimo. Mettitela anche tu”. “Io? Sei matto”. “Ma è una provocazione, no? Sai le facce che faranno?” […]. Fra le tante note contrapposte di quelle giornate così particolari, la maglietta rossa fu a suo modo la sintesi, forse originale, magari banale, dei miei pensieri, del mio stato d’animo. Vado, provoco, vinco. Il rosso non era davvero il colore di moda in quei giorni, nel Cile di Pinochet, era il colore di chi ricordava il presidente Allende ucciso dal golpe […]. Da quel punto di vista fu un colpo da matto, un’evidente provocazione, e Bertolucci non aveva del tutto torto. “Se ci va bene, ci sparano. E se ci va male, non lo voglio neppure immaginare”. Andò bene, e nessuno ci sparò.
Negli stessi giorni della finale di Coppa Davis, mentre la Fiat comunica “ufficialmente di aver venduto il 10 per cento della ditta nientemeno che al colonnello Gheddafi, ovvero il dittatore libico considerato un pericoloso guastafeste”, il brigatista rosso Walter Alasia, ventenne figlio di operai, prima di essere colpito a morte dagli agenti che hanno fatto irruzione nella casa dei suoi genitori a Sesto San Giovanni (allora “la Stalingrado d’Italia”, si diceva) uccide il vicequestore della polizia Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega. Intanto a Roma, nell’agguato nappista a un vicequestore dell’antiterrorismo muoiono il giovane agente di polizia Prisco Palumbo e il nappista Martino Zicchitella, probabilmente colpito da fuoco amico. A Brescia, città colpita due anni e mezzo prima dalla strage fascista di piazza della Loggia, una nuova bomba rudimentale dei fascisti, una pentola a pressione riempita con quasi un chilo di esplosivo, esplode in Piazzale Arnaldo e uccide Bianca Gritti Daller, insegnante di tedesco di sessantuno anni, ferendo gravemente un maresciallo dei carabinieri.
Si presenta così il 1977, l’anno che verrà. “Si esce poco la sera, compreso quando è festa, e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra”.