Quando uno studente di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma sale la scalea dell’edificio di Facoltà nella razionalistica Cittadella Universitaria, si ritrova in un ampio corridoio che funge da atrio; lungo tutto il corridoio si aprono le porte delle aule. Le due porte in fondo danno su quella che è generalmente considerata l’Aula Magna; sebbene non sia poi tanto magna, dacché sarebbe forse appena sufficiente ad accoglier tutti (e non tutti a sedere) i soli docenti della Facoltà: e infatti non porta il nome di “Aula Magna” ma quello piú modesto di “Aula I”, ed è comunque un ambiente ben grande e la piú grande sala dell’edificio.
I primi giorni che ci si trovi a frequentare questo ambiente, ci si sente immancabilmente raccontare il grande aneddoto che in quell’aula insegnò un tempo Giuseppe Ungaretti. E questo non manca mai di fare un certo effetto. Anzi: è un’emozione da privilegiati il poter accogliere delle matricole e poter cosí esser gli ambasciatori di tale storiella, e godersi lo stupore.
In effetti, Ungaretti fu per diversi anni professore di Letteratura Italiana a Roma: vi giunse nel 1942 dal Brasile, dove per i sei anni precedenti aveva ricoperto lo stesso ruolo a San Paolo. A quell’altezza cronologica, aveva già pubblicato i grandi libri che l’avevano reso celebre e cui tuttora si lega con maggior immediatezza e forza la sua fama.
Sono del secondo decennio del secolo “Il Porto Sepolto” e “Allegria di naufragi”. Era un periodo in cui Ungaretti si trovava in Francia. Molti furono gli spostamenti di Ungaretti, alessandrino ma egiziano e non piemontese; dalla Francia riportò i semi fondamentali della sua Poetica.
In Francia, infatti, conobbe il Simbolismo e il Futurismo. L’originalissima sintesi che il Nostro seppe dare di due correnti apparentemente tanto lontane è la radice del suo rapporto con la parola; se la singola parola era per il Simbolismo evocatrice di una sterminata serie di significati, il Futurismo praticava l’affermazione violenta e plateale della parola urlata e potente: dalle due correnti Ungaretti impara il potere assoluto della parola assoluta, la facoltà dell’enunciato decontestualizzato di creare contesti.
Nasce cosí il suo inconfondibile dettato fatto di versicoli, apparentemente frammentato ma profondamente coeso come il respiro. L’espressione poetica diviene una sorta di interiezione lirica, un’espirazione densa di significati e di attesa: è l’attesa infatti, lo spazio bianco dove non c’è parola, la principale frontiera su cui lavora l’opera ungarettiana.
E questo si fa particolarmente evidente nell’altro dei grandi libri di cui si diceva: “Sentimento del Tempo”, risalente al quarto decennio del secolo. Qui, la parola è esplicitamente divenuta “un breve squarcio di silenzio”.
Il che vuol dire forse che la poesia non è costituita tanto dalle cose che dice, ma da ciò che sta fra l’una e l’altra cosa che essa dice, e che la poesia dura oltre i confini della sua prima e della sua ultima parola; ma esiste un punto, in questo durare della poesia, in cui essa manifesta sé stessa nell’espressione lirica.
Con questa raccolta poetica, Ungaretti ha guadagnato la fama di espressione massima dell’Ermetismo; tale corrente letteraria prende il nome dalle sentenze ermetiche (ossia dettate dal dio Ermete), che erano notoriamente oscure ma al contempo veicolavano messaggi esoterici: cosí la poesia ermetica è volutamente difficile da interpretare ma ha anche lo scopo di significare qualcosa di piú profondo di ciò che un’espressione piú chiara (e dunque necessariamente univoca) possa sperare di veicolare. Ma già con questa stessa raccolta Ungaretti superava l’Ermetismo medesimo, nel senso che si diceva sopra.
Negli anni successivi, ancora sarebbero venuti libri importantissimi (“Il Dolore”, “La Terra Promessa”, “Il Taccuino del Vecchio”): e in questi Ungaretti muove verso soluzioni formali piú tradizionali; e si riallaccia cosí esplicitamente alla grande tradizione lirica italiana. Ed è a tutti gli effetti un precedente necessario, una di quelle figure dopo le quali nulla in un’Arte è piú come prima.