Nel 2007, in occasione del 150simo anniversario della nascita della storica fabbrica dei fratelli Borsalino, ho avuto il piacere di rendere omaggio al nostro cappello nazionale curando un’antologia dal suggestivo titolo Borsalino, un diavolo per cappello (pubblicato dalle edizioni Robin in un elegante cofanetto), un’operazione culturale che ottenne anche l’imprimatur dell’allora assessore alla cultura del comune, Roberto Livraghi.
Per rendere omaggio a uno dei marchi più celebri e prestigiosi di ciò che un secolo fa ancora non era stato battezzato come Italian Style, riuscii a coinvolgere un buon numero di scrittori (non solo di casa nostra) grazie proprio alla mitica parola Borsalino.
Per riproporre uno dei racconti dell’antologia, ho scelto per questo appuntamento domenicale con ALlibri il nome di Andrea Carlo Cappi, figura storica della narrativa di genere e padre di personaggi del calibro di Carlo Medina e Mercy Nightshade Contreras, Toni Black Porcell e Rosa Sickrose Kerr (pubblicati sui vari numeri di Segretissimo Mondadori). Oltre ad essere traduttore, saggista e firma di romanzi con Diabolik e Martyn Mistére.
Nel racconto Cacciatore & Borsalino compare proprio il Cacciatore di Libri, personaggio che fin dalle origini, coniuga la passione per libri e Borsalino, elementi indissolubili per le sue avventure tinte di giallo, di noir e di una punta di sovrannaturale che non ci sta male.
Buona lettura.
CACCIATORE & BORSALINO
1
Avete presente quei film di moda qualche tempo fa, in cui un personaggio continua ad avere a che fare con fenomeni paranormali, poi alla fine si scopre che lui è un fantasma e quelli che credeva fantasmi sono la gente vera?
Ecco, oggi mi sento proprio così. In questo momento sto infestando uno dei luoghi che frequentavo quando ero noto come il Cacciatore di Libri. Nel senso che una volta andavo in giro per Milano con un Borsalino in testa, interpretando un personaggio che io stesso avevo creato: il detective bibliofilo. È stato il mio mestiere per un bel po’, prima che decidessi di passare a un collega i miei clienti – compreso quello più famoso, un americano di nome Martin Mystère – per cercarmi un lavoro più normale. Probabilmente è stato un errore. Ci ho messo un po’ troppo a capire che per me l’indipendenza era più importante di uno stipendio fisso.
Ma ora sono tornato al mio mondo e alla mia città. Anche se non sembra che nessuno abbia trattenuto il respiro nell’attesa.
Il mercatino dell’antiquariato sui Navigli, oggi come allora, si tiene l’ultima domenica del mese. Cammino tra i coriandoli di un sabato di carnevale cui non ho partecipato. Cerco di stare lontano dai banchi dei libri e dei fumetti, mi sentirei come un tossico in crisi di astinenza. Indulgo presso quelli del vinile, poi mi ricordo che il mio vecchio giradischi ha la cinghia che slitta, cosa che riesce a togliermi il piacere di riascoltare i vecchi album di Joe Cocker. Ricomprarli tutti in cd? Non se ne parla.
Arrivo a un banchetto che vende cappelli e ne vengo improvvisamente attratto. Lo vedo subito: un Borsalino, un classico fedora grigio dall’aria vissuta ma perfettamente conservato. Lo prendo in mano e lo osservo. Dentro c’è il nome di una cappelleria di via Broletto a Milano e la dicitura QUALITÀ SUPREMA. Non l’avevo mai messo in dubbio. E poi, oltre al marchio di fabbrica, ci sono gli orgogliosi annunci: BORSALINO – GRAND PRIX PARIS 1900 – ANTICA CASA FONDATA NEL 1857. Se la matematica non è un’opinione, vuol dire che la fabbrica di Alessandria sta festeggiando i suoi centocinquant’anni di vita.
Passa, il tempo.
C’è il sole, oggi, anche se non dovrebbe essere ancora primavera, e non ho messo il mio vecchio Borsalino nero. Mi provo questo: è proprio della mia misura e si intona perfettamente al grigio del trench Burberry che ho ereditato da mio padre. È amore a prima vista. Quel cappello stava proprio aspettando me. Per questa volta me ne andrò dal mercatino sul Naviglio senza libri, ma ugualmente alleggerito di qualche decina di euro.
Mentre mi allontano, mi vedo riflesso in un vetro: con il cappello, l’impermeabile e i capelli lunghi raccolti a coda mi sembro una specie di Bogart gitano. Sull’angolo mi imbatto in un tale che barcolla. Avrà una trentina d’anni, è piuttosto elegante ed è decisamente sbronzo, anche se sono solo le due del pomeriggio. L’uomo mi guarda e, con singolare proprietà di linguaggio mi dice: “Una volta avevo anch’io un cappello così. Trent’anni fa. Lo sai cos’è?”
Faccio cenno di sì. Sono più di venticinque anni che uso cappelli Borsalino, quello nero d’inverno e il panama bianco d’estate.
Passa, il tempo.
Lui schiva un ostacolo del tutto immaginario, fa una giravolta, si porta una mano alla testa come per indicare un cappello inesistente e dice: “Fossi in te ci darei un’occhiata dentro.” Riprende il cammino, scansa per miracolo una signora che regge un pesante grammofono e fa il cenno di togliersi il suo cappello che non c’è. “Mi scusi, principessa.” Poi barcolla via.
Inarco le sopracciglia e mi rimetto in marcia. Faccio un paio di metri lungo il marciapiede.
Una volta avevo anch’io un cappello così. Trent’anni fa.
Curioso, al tipo avrei dato giusto una trentina d’anni.
Fossi in te ci darei un’occhiata dentro.
Mi fermo, mi tolgo il cappello e guardo dentro. Ci sono scritte le iniziali del precedente proprietario, AK.
Un’occhiata dentro.
Guardo meglio. Nella fascia interna c’è una zona rigonfia, ci infilo un dito e pesco un cartoncino ripiegato. È un biglietto da visita. Dice: ANDY KOWALSKY, INVESTIGATORE PRIVATO. Sul biglietto c’è l’indirizzo, via Meravigli a Milano.
Un’occhiata dentro.
Mi volto verso l’ubriaco. Ormai è sparito. Probabilmente avrei buone possibilità di ritrovarlo lì vicino al nuovo Le Trottoir, all’ex dazio, ma di sicuro ci troverei anche Andrea G. Pinketts che mi intrappolerebbe a bere birra l’intero pomeriggio per farsi raccontare dove sono stato tutto questo tempo. Lascio perdere. Solo quando arrivo a casa riprendo in mano il biglietto da visita, lo volto e leggo quello che c’è scritto dietro. Una lettera dell’alfabeto greco: Σ. Potrebbe essere frutto della mia fervida fantasia, ma più che inchiostro sembra sangue coagulato.
Continua…
© Andrea Carlo Cappi, 2007
2
Il mattino dopo prendo in mano le pagine gialle e vado a guardare sotto investigatori privati. Ci sono agenzie che si chiamano “Agata Christie” (con un’h di meno), “Derrick” e persino FBI. E ce n’è una che si chiama “Dany Kowalsky”, in via Meravigli. Oh oh. Non è proprio la stessa cosa, ma il nome è un anagramma.
Quando facevo il mio vecchio mestiere, credevo fermamente nella “fortuna del cacciatore”. Se era destino che trovassi quello che cercavo, lo trovavo, di solito nei modi più impensati. Mi fermavo improvvisamente di fronte a un banchetto in qualche fiera, mercatino, rivendita o chissà che e all’improvviso mi sentivo… chiamare. Più o meno la stessa sensazione che ho avuto quando mi sono avvicinato alla venditrice di cappelli. Il fatto è che sono curioso di sapere chi fosse il precedente proprietario del mio cappello nuovo. Mi metto l’impermeabile, mi calco in testa il Borsalino e prendo l’autobus numero 50.
Una volta arrivava in piazza Cordusio, adesso si ferma poco prima di largo Cairoli, ma bastano due passi per arrivare in via Meravigli. Una targa fuori dal portone mi dice che l’agenzia si trova al quarto piano. Prendo l’ascensore, esco sul pianerottolo, suono il campanello.
La serratura scatta automaticamente, spingo la porta, entro. È un appartamento riconvertito in ufficio – da molto tempo, immagino – e il vestibolo è abbastanza ampio da fungere da reception. Ci sono varie porte, tutte chiuse tranne usa, aperta a metà, dietro la quale ci sono una luce e una radio accese. In mezzo alla reception c’è una bionda, in piedi. Un viso al tempo stesso duro e attraente e un bel corpo di cui lei stessa dev’essere al corrente, dal momento che indossa un top piacevolmente scollato e una minigonna collocata sul giusto paio di gambe. Chiunque sia il signor Kowalsky, devo dire che ha gusto nella scelta delle segretarie.
Da quando mi sono fatto crescere i capelli, i baffi e la barba devo avere acquisito a mia volta un fascino tutto particolare, dal momento che le basta vedermi per lasciar cadere a terra il contenuto della cartelletta che porta sottobraccio, in una lenta cascata di fogli. Se ne rende conto solo quando nota che la cartelletta è diventata troppo leggera. La guarda, poi guarda i fogli sul pavimento, ma non dà cenno di volerli raccogliere.
“Ehm, posso aiutarla?” le dico io. Mi avvicino e mi chino per raccogliere le carte.
Lei si china a sua volta e la minigonna indietreggia di qualche centimetro sulle cosce. Sarei tentato di tirare fuori gli occhiali dalla tasca della giacca per osservare meglio, ma forse sarebbe sconveniente.
Le consegno la parte di fogli che ho raccolto, lei la rimescola abilmente con quelli che ha in mano lei e, mentre rimette il tutto nella cartelletta, mi dice: “Mi scusi. Lei assomiglia molto a… una persona.”
“Capisco”, rispondo. L’ultima volta che mi sono visto allo specchio con i capelli sciolti, in effetti, somigliavo alle vecchie foto di Charles Manson.
“In che cosa posso aiutarla?”
“Vorrei conoscere il signor Andy Kowalsky.”
Stavolta le cade di mano la cartelletta al completo e i fogli si sparpagliano di nuovo sul pavimento. Non c’è speranza.
“Mi correggo”, dico subito. “Vorrei conoscere il signor Dany Kowalsky per sapere qualcosa del signor Andy Kowalsky.”
La donna si rialza, lasciando i fogli dove sono. “Lei chi è?”
Infilo una mano nel taschino anteriore della giacca e trovo uno dei miei vecchi biglietti da visita da Cacciatore di Libri. Glielo porgo.
Lei mi tende una mano. “Danielle Kowalsky, sono io.”
Dunque la bionda è la detective, non la segretaria. Avrei dovuto subito pensare alle dinastie di detective stile Tom Ponzi, anziché ai cliché stile Mickey Spillane. Mi viene voglia di chiedere se è lei che ha bisogno di un segretario: accetterei anche stipendio minimo e molestie sessuali sul luogo del lavoro. Le stringo la mano.
“È strano che lei sia venuto a chiedere di mio padre”, dice lei. “Quando è entrato dalla porta… per un attimo ho pensato che lei fosse… lui. In effetti non gli somiglia molto, ma la barba, i vestiti, il cappello…”
“Proprio di questo volevo parlarle. Mi scusi se la disturbo solo per soddisfare una mia curiosità, ma ieri ho comprato questo sui Navigli…” Mi tolgo il cappello e glielo mostro.
Lei nota le iniziali all’interno. “È il Borsalino di mio padre! Dove lo ha trovato?”
“Sul banchetto di una venditrice di cappelli.”
“Venga”, mi dice. Mi precede nel suo ufficio, quello dietro la porta aperta, apre il cassetto di un vecchissimo schedario e ne tira fuori una cartelletta verde stinto. Dentro, ripiegata, c’è una prima pagina de La Notte. Il titolo è: GIALLO A MILANO: INVESTIGATORE SCOMPARE.
La seconda cosa che balza agli occhi è la fotografia del signor Andrzej “Andy” Kowalsky. È vero, non mi somiglia molto, ha gli occhi chiari, i capelli corti e il viso più lungo del mio. Ma ha in testa lo stesso cappello e addosso un trench identico. I baffi e la barba sono abbastanza simili, solo più curati. Ma se quella è l’immagine di suo padre che Danielle ha in mente, posso capire che vedendomi entrare sia rimasta sorpresa.
Dò una scorsa all’articolo, che risale al gennaio del 1977. A quanto pare all’epoca Kowalsky godeva di una certa fama. Poi, a un certo punto, sparì dalla circolazione. Dalla sera alla mattina, senza salutare. Il suo assistente, tale Attilio Barroni, e la moglie Elisabetta Kowalsky ne denunciarono la scomparsa. La storia finiva lì.
“Cos’è successo a suo padre?”
“Non è stato mai ritrovato. Secondo la polizia era coinvolto in una storia di spionaggio industriale ed era scappato all’estero. Mia madre non ci ha mai creduto. Non era possibile che se ne andasse così, senza cercare di mettersi in contatto con lei e con una figlia di dieci anni. Mia madre ha mandato avanti l’agenzia insieme all’assistente di mio padre, fino a quando non l’ho rilevata io quindici anni fa. In tutto questo tempo nessuno ha più visto Andy Kowalsky, né il suo impermeabile, né il suo cappello.” Mi guarda e riflette. “Se era davvero in fuga, potrebbe avere deciso di liberarsene per non essere riconosciuto. Gli bastava farsi la barba e mettere un paio di occhiali per cambiare aspetto. Di sicuro conosceva qualcuno in grado di procurargli documenti falsi per espatriare.”
A questo punto, dalla fascia interna del Borsalino estraggo il biglietto da visita ripiegato. “Ho trovato anche questo.”
Lei guarda subito il biglietto, davanti e dietro. Poi alza gli occhi su di me. “Forse”, dice inquieta, “non ha mai lasciato la città.”
Continua…
© Andrea Carlo Cappi, 2007
3
Nel suo ufficio si può fumare. Danielle si accende una sigaretta, io un mezzo Garibaldi. Il vizio comune ci ha permesso di passare al tu. Ha deciso di raccontarmi la storia di Andrzej “Andy” Kowalsky.
“Mio padre ha cominciato facendo il cacciatore di nazisti.”
Non faccio commenti: di fronte a un simile incipit si sta ad ascoltare e basta.
“È nato nel ghetto di Varsavia nel 1924. Lo deportarono a Birkenau, ma lui fu tra gli artefici della rivolta dei prigionieri del 1944 e uno dei pochi che riuscirono a fuggire senza essere ricatturati. Entrò nella resistenza e…” Le suona il cellulare.
Mi alzo dalla sedia davanti alla sua scrivania e vado a sbirciare i libri sugli scaffali. Vecchie abitudini. Vedo testi che lasciano supporre una laurea in legge, un bel po’ di Gialli Mondadori e vari numeri della rivista Detective.
Danielle conclude la sua telefonata e riprende il racconto. “Dopo la guerra rimase in contatto con un nucleo di partigiani, quasi tutti ebrei come lui, e collaborò con varie organizzazioni internazionali nella caccia ai criminali di guerra. Fu questo a dargli l’idea di fare l’investigatore privato quando smise di viaggiare per l’Europa e si fermò a Milano.”
“Come è arrivato qui?” domando.
“A Birkenau aveva sentito parlare di un milanese responsabile di centinaia di deportazioni. Per quell’uomo era una fonte di guadagno: avvicinava ebrei o altri possibili soggetti a rischio, prometteva loro una via di fuga e si faceva consegnare tutti i loro beni, assicurando che li avrebbe portati al sicuro in Svizzera. Dopodiché li denunciava alle autorità, tenendosi tutto. Purtroppo nessuno ne conosceva la vera identità: il sedicente benefattore si presentava con un nome in codice, Sigma. Mio padre disponeva solo di una sua descrizione.”
“E lo ha trovato, questo Sigma?”
“No. O almeno così pensavo fino a oggi.”
Mi viene in mente la “fortuna del cacciatore”. Se cerchi intensamente qualcosa, a volte riesci a trovarlo. Forse alla fine Kowalsky aveva scoperto l’identità di Sigma, ma per lui non era stata affatto una fortuna. “Hai ancora gli schedari di tuo padre? Forse c’è qualche indizio.”
Danielle scuote il capo. “Quando ho preso in mano l’agenzia, è stata la mia prima preoccupazione. Ho passato al setaccio tutto l’archivio. Non pensavo a Sigma, ma sospettavo che durante una delle sue ultime indagini avesse scoperto qualcosa di pericoloso. Non ho trovato niente. Se è per questo, nemmeno tracce dell’attività di spionaggio industriale che gli ha attribuito la polizia. Ma forse… Devo parlare con una persona.” Esita. “Ti va di accompagnarmi?”
***
L’appartamento di Attilio Barroni è nella zona in cui ho vissuto per anni, Città Studi. In ascensore, Danielle mi chiede un favore: “Togliti l’impermeabile e nascondici sotto il cappello.”
La assecondo. Capisco il motivo poco dopo. Sulla porta c’è scritto BARRONI-KOWALSKY e la signora che viene ad aprire è una versione ultrasessantenne della mia nuova amica investigatrice. A fugare ogni dubbio è il saluto che le rivolge Danielle dopo uno scambio di baci. “Ciao, mamma. C’è Attilio?”
Su un tavolino ci sono alcune foto incorniciate. Una è la stessa che ho visto sul giornale: Kowalsky con trench e Borsalino, C’è anche una graziosa foto in bianco e nero di Danielle, probabilmente ventenne, che sembra una diva di Hollywood. Le altre mostrano una coppia, spesso in compagnia di una bambina bionda. L’uomo nelle foto non è Kowalsky: è Attilio Barroni, che ora ci riceve in un piccolo studio. Adesso è molto più grasso e ha una corona di capelli bianchi.
La madre non è presente e Danielle non perde tempo. “C’è qualcosa che mi hai tenuto nascosto sulla scomparsa di mio padre?”
Da dietro le spesse lenti degli occhiali, Barroni guarda sorpreso prima lei e poi me. “Perché me lo chiedi?”
Danielle si rivolge a me. “Puoi mostrargli il biglietto, per favore?”
Porgo a Barroni il biglietto da visita di Kowalsky.
“Questo è l’ultimo messaggio di mio padre prima di scomparire”, dichiara la detective. “Sigma. Ne sai qualcosa?”
“Danielle, sono passati trent’anni…” comincia lui, evasivo.
“E non credi che sia il momento di dirmelo? È da quando ero bambina che sto cercando di capire che cosa sia successo a mio padre. Tu lavoravi con lui, sapevi di che cosa si occupava. E nemmeno tu hai mai creduto alla storia dello spionaggio industriale. Allora rispondi: mio padre ha trovato Sigma?”
Barroni fa un cenno di assenso. “Sì. O almeno lui ne era sicuro.”
“E perché non me lo hai mai detto?”
“Mi sono preso la responsabilità di proteggere te e tua madre. Ho sempre pensato che… Sigma avesse ucciso tuo padre… e non volevo che correste dei rischi anche voi.”
“Chi è?”
“Non l’ho mai saputo. Tuo padre aveva visto la foto di un tale da qualche parte e si era messo in testa che fosse Sigma. Indagò. Era sempre più convinto, voleva andare a parlargli, sperava di farlo crollare. Io gli ho detto di lasciar perdere, avrebbe finito per mettersi nei guai. E infatti…”
“Dove ha visto quella foto?”
Barroni si stringe nelle spalle. “Che cosa ne so?”
Danielle tace. Sta riflettendo, ma non condivide i suoi pensieri con i presenti.
Il padrone di casa riprende la parola. “E se vuoi un consiglio… lascia perdere. Non andare anche tu a metterti nei guai.”
***
Puntiamo verso un bar. L’insegna dice: CAFFÈ RISVEGLIO. Per entrare bisogna fare tre gradini, in buona parte occupati da un vecchio ubriaco che dorme. Ci sediamo a un tavolino e ordiniamo io un gin tonic, lei un Lagavulin.
“È strano che mio padre non avesse niente in schedario su Sigma”, dice Danielle. “Nessun appunto, nessun ritaglio di giornale… Se almeno sapessimo dove e quando ha visto quella foto…”
“… potremmo trovare il giornale in biblioteca e scoprire chi è Sigma”, completo io.
“Ma una pista ce l’abbiamo. Da chi hai comprato il cappello?”
“Una donna. Non ricordo nemmeno che faccia abbia.”
“Non dev’essere impossibile trovarla. Potrebbe avere un magazzino, un negozio…”
“Non so come sia per i cappelli, ma i libri di solito spuntano quando si svuota una vecchia cantina. Probabilmente uno che lo fa di mestiere glielo ha rivenduto e lei lo ha ripulito e rimesso a nuovo.”
“Potremmo risalire alla cantina o alla casa da cui proviene il Borsalino. Domani mi metto a cercare…” Le suona il cellulare. Parla brevemente. Poi toglie la comunicazione, svuota il bicchiere in un sorso e si alza in piedi. “Devo scappare. Ci sentiamo.” E corre via.
Finisco di bere, pago e me ne vado. Sui tre gradini dell’ingresso il vecchio ubriaco smette di dormire, alza la testa e mi dice: “Il due febbraio.”
“Come?”
“Sul Corriere, il due febbraio.” Poi abbassa di nuovo la testa e torna a dormire.
Continua…
© Andrea Carlo Cappi, 2007
4
Ci penso per tre giorni. Mi sembra assurdo. Oppure uno di quei fenomeni di “soprannaturale urbano” di cui si occupa ogni tanto il professor Carlo Oliva. Alla fine decido di crederci e vado alla Sormani a consultare le raccolte in emeroteca.
Corriere della Sera.
Due febbraio 1977.
Lo trovo.
Nella sezione economica c’è un articolo sull’acquisizione della fabbrica di lavatrici Tornado da parte del gruppo industriale Mariner, già leader nel campo dei frigoriferi. C’è una fotografia del presidente e fondatore della società.
Come faccio a sapere che è lui?
La didascalia dice che si chiama Sigfrido Marini.
Sig-Ma.
In strada prendo il telefono e chiamo Danielle. Non la trovo né in ufficio né al cellulare. Torno a casa e controllo la posta elettronica. C’è un messaggio della mia amica detective: ha trovato la donna che tiene il banchetto dei cappelli al mercatino, che a sua volta l’ha rinviata a una piccola società che si occupa dello sgombero di cantine e solai. Il proprietario, un egiziano, si ricordava del cappello: le ha dato l’indirizzo a cui lo ha trovato: una casetta unifamiliare a Zelo Buon Persico. Danielle c’è andata: la casa è in vendita. Ha controllato: ci viveva Ambretta Franceschini, vedova di un pregiudicato; lui si è fatto ammazzare in un regolamento di conti nel 1986, lei è morta due mesi fa. A sgombrare la casa è stato un nipote di venticinque anni che non sa niente di che cosa sia successo nel 1977.
Mando un’e-mail a Danielle per comunicarle le mie ultime scoperte, poi guardo su Internet: il gruppo Mariner è tuttora in attività, gestito dal figlio di Sigfrido, Alfredo Marini. Il fondatore è morto nel 2004, a novant’anni: ha avuto tutta la vita per godersi impunito i proventi dei suoi crimini.
Danielle non risponde né all’e-mail né al telefono. La sera, tuttavia, mi chiama la signora Kowalsky. “È lei che è venuto l’altro giorno da me con Dany?”
“Sì, perché?”
“Non risponde al telefono e a casa non c’è. Sono venuta in ufficio a controllare l’agenda e ho trovato questo numero. Non ha sue notizie, per caso?”
Avverto una stretta allo stomaco. “No… Se mi capita di sentirla, le dico di chiamarla. Posso farle una domanda?”
“Mi dica”, fa lei, rassegnata.
“Quale società ha accusato suo marito di spionaggio industriale, nel 1977?”
Un attimo di esitazione. Non dev’essere piacevole per lei ripensarci. “La Tornado, quella delle lavatrici.”
Bingo.
***
Continuo a non sapere niente di Danielle e la stretta allo stomaco è diventata una netta sensazione di pericolo. Devo fare qualcosa. Le sue indagini sembravano a un punto morto, eppure ora lei è scomparsa. Come suo padre.
Mi viene un’idea improbabile. Assolutamente improbabile.
Com’è che l’ubriaco trentenne sui Navigli mi ha detto di guardare nel cappello? Che cosa ne sapeva?
E come faceva il vecchio che dormiva sui gradini a conoscere la data esatta del Corriere della Sera in cui Kowalsky aveva trovato la fotografia di Sigma?
Forse era qualcun altro a parlare per bocca loro.
Mi metto cappello e impermeabile, mi piazzo in cucina e prendo una bottiglia di Glendronach che tenevo per le grandi occasioni. La apro e me ne riempio un bicchiere.
Lo bevo.
Poi di nuovo, poi di nuovo, poi di nuovo…
Ricordi.
Erano state le detenute a portare di nascosto nel campo di concentramento l’esplosivo che si erano procurate nella fabbrica in cui le portavano a lavorare.
Poi si era scatenato l’inferno…
Dei prigionieri in fuga, pochi erano riusciti ad allontanarsi da Birkenau prima di essere ricatturati…
Funziona.
La testa mi gira ma io continuo a bere, fino a quando…
***
Non so come sono capitato qui, ma riesco a vedere che cosa pensa l’uomo di cui sto occupando il corpo. Capisco che sono passati trent’anni da quando sono morto. E so che Danielle è in pericolo: credo di sapere dove l’hanno portata e spero che non sia già troppo tardi.
Mi alzo dal tavolo. Come è accaduto già due volte, sono perfettamente lucido, ma il corpo che ho preso a prestito non risponde ai comandi. Nelle altre occasioni è durato solo pochi secondi, ora la situazione sembra più stabile. Mi guardo allo specchio: il tipo si veste proprio come me.
C’è un telefono. Mi ricordo ancora il numero. Non riesco a mettere a fuoco i tasti – trent’anni fa si usavano i telefoni a disco – ma nel taschino della giacca c’è un paio di occhiali. Ora va meglio.
“Pronto”, mi risponde una voce.
È lui, il mio vecchio amico Schlomo: dunque per fortuna è vivo e abita ancora a Milano, anche se allora era un giovane agente del Mossad mentre adesso sarà sull’orlo della pensione.
“Schlomo? Sono Kowalsky.” Per fortuna riesco a parlare correttamente, anche se per stare in piedi mi devo appoggiare alla parete.
“Cosa?!?”
“Andy Kowalsky. E non ho tempo da perdere. Ho bisogno del tuo aiuto. Altrimenti vado a raccontare di quando nel ’75 hai fatto saltare una casa sicura del SID con tre palestinesi e i cinque agenti italiani che li stavano interrogando.”
“Cazzo, sei proprio tu! Ti credevo morto da trent’anni.”
“È una storia lunga. Senti, mia figlia ha ripreso una mia vecchia indagine ed è in mano al nemico. Devo tirarla fuori. Hai ancora la tua attrezzatura?”
“Be’, sì…” Sento la sua esitazione: non ha la minima voglia di essere coinvolto attivamente in questa storia. Io, a mia volta, non posso permettere che mi veda: si chiederebbe come faccio ad avere un’altra faccia e a dimostrare meno dei miei… ottant’anni?
Passa, il tempo.
“Non c’è bisogno che venga anche tu”, gli dico. “Basta che mi lasci una valigia tra sessanta minuti esatti in un posto sicuro…”
“Non ne ho più di posti sicuri, sono fuori dal giro.”
Frugo nella memoria del mio anfitrione. “Lascia la valigia alla reception dell’Admiral Hotel, in via Domodossola 16. Digli che è per il Cacciatore. Tra un’ora esatta.”
***
Il taxista mi ha guardato storto quando sono salito in macchina, non gli piacciono gli ubriachi. Ma la mia mente è lucidissima e la mia voce perfettamente sotto controllo. Scendo all’Admiral Hotel e mi dirigo verso la reception, sorreggendomi al corrimano della scala.
“Buonasera, hanno lasciato una valigia per me.” Il portiere di notte mi conosce di vista – o meglio, conosce di vista la faccia che ho in questo momento – e mi consegna il bagaglio lasciatomi da Schlomo. Mi appoggio al banco.
“Si sente bene?” chiede il portiere…
“Come?” faccio io. Maledizione, ho perso il contatto, sono tornato a essere me stesso. Reggo troppo bene l’alcool e mi è passata la sbronza. Mi ritrovo all’Admiral Hotel e so che è stato Kowalsky a portarmici. Per prendere una valigia.
Ma che cosa c’è dentro?
Per farne cosa?
Per andare dove?
“Oh, sì, solo un capogiro”, rispondo, e mi fiondo al bar. “Buonasera, Settimo. Puoi farmi due martini al volo?”
Il barman mi conosce, ma mi guarda perplesso. “Due?”
“Sì, muoio di sete.”
Settimo conosce anche i miei gusti. Prepara due martini come vanno preparati e mi mette davanti i due bicchieri. Li tracanno come se fossero acqua fresca. “Sul mio conto”, faccio in tempo a dire, prima che ricominci a girarmi vorticosamente la testa…
Finalmente. Dov’ero rimasto? Torno alla reception e chiedo di chiamare un taxi.
Continua…
© Andrea Carlo Cappi, 2007
#saveBorsalino
5
Questa sera ho deciso di fare quello che avrei dovuto fare trent’anni fa. Allora volevo cercare le prove, volevo che Sigfrido Marini finisse in galera per quello che aveva fatto. Ora penso solo a Danielle, non mi frega niente del resto.
Nel 1977 un piccolo malvivente di nome Franchini mi ha sequestrato su ordine di Marini e mi ha tenuto per giorni nella cantina di casa sua, da qualche parte in campagna. Non si preoccupava che vedessi in faccia lui e sua moglie: era chiaro che volevano ammazzarmi. Non mi restò che tagliarmi con un chiodo sporgente, tracciare una sigma con il sangue su un mio biglietto da visita e nasconderlo nel cappello, che lasciai in un angolo della cantina, sperando che qualcuno prima o poi lo trovasse. Ma certe cose succedono solo nei gialli di Ellery Queen.
Poi, una notte, mi portarono a Cesano Boscone, alla fabbrica Mariner. Il mio nemico voleva interrogarmi, voleva sapere se avessi informato qualcuno della mia scoperta. Compresi che il mio socio Attilio, quel bastardo, mi aveva venduto a Marini. Sospettavo già che gli piacesse mia moglie, ma non avrei mai immaginato che sarebbe arrivato al punto di prendere soldi da qualcuno per farmi ammazzare e poi accorrere in aiuto di Elisabetta.
Il complice di un assassino che cerca di passare per un eroe.
Farò i conti con lui in un altro momento.
Ora mi sono fatto portare a Cesano Boscone. Il taxi se ne va e io barcollo verso la recinzione, lontano dal cancello e dalla guardiola. Depongo a terra una carica, regolo il timer e corro al riparo. Mi sembro una gallina impazzita: inciampo, mi trascino sul cemento, ma alla fine riesco a piazzarmi dietro un cassonetto prima dell’esplosione.
Lo scoppio sventra la recinzione.
Apro la valigia, ficco due pistole nella capienti tasche del trench, imbraccio la Uzi e parto alla carica.
Due guardie accorrono. Mi accorgo di essere così sbronzo che non riesco a prendere la mira. Non voglio ammazzarli, immagino che siano poveri disgraziati che fanno il loro mestiere. Per fortuna loro sparano ad altezza uomo e il mio corpo ha pensato bene di cadere a terra come un sacco di patate. I proiettili fischiano sopra di me.
Be’, sono steso, tanto vale approfittarne. Sparo una raffica, falciando loro i piedi, così gli passa la voglia.
Mi rialzo con la rapidità di un tricheco e proseguo verso l’entrata. Faccio saltare la serratura della porta con una raffica. Entro e un’altra guardia corre verso di me. Gli falcio le gambe, poi getto via la Uzi e dalle tasche estraggo due revolver, copie israeliane della Smith & Wesson.
“Grazie, conosco la strada”, dico all’uomo che geme steso a terra.
Percorro il corridoio a zigzag, rimbalzando come una palla contro le pareti. Dio, ma quanto ha bevuto questo idiota? Arrivo a una porta con scritto DIREZIONE. Mi appoggio al muro, di fianco allo stipite, e busso con la canna di una pistola. Tre colpi trapassano il legno.
“Aaagh!” urlo, fingendomi colpito. E stramazzo sul pavimento. Mi viene fin troppo naturale. Il problema sarà rialzarsi, non sono sicuro che il mio corpo sarà in grado di farlo.
La porta si apre e un uomo mette fuori la testa. Il tale di cui occupo il corpo lo ha già visto sul suo computer attraverso un qualcosa che si chiama Internet: è Alfredo Marini, figlio di Sigma.
E figlio di troia.
Prima che possa puntare su di me la sua Beretta, lo faccio volare all’indietro con un coro di proiettili calibro 9 parabellum dalle mie due pistole.
Mi rigiro sul pavimento e a fatica mi rimetto in piedi. Mi appoggio allo stipite e mi affaccio.
Marini è steso a terra, intento a tirare le cuoia. Danielle – il ritratto di sua madre a quell’età – è legata a una sedia, con un livido sulla faccia. Il bastardo voleva sapere che cosa aveva scoperto degli scheletri nell’armadio della sua famiglia e l’ha sequestrata per interrogarla. E poi ucciderla, come Sigma ha fatto con me trent’anni fa.
La guardo.
Lei guarda me.
“Salve, principessa” le dico.
La slego, lei si mette a piangere, mi abbraccia. Ho un capogiro e all’improvviso tutto intorno a me diventa nero.
***
Mi risveglio e ho la sensazione di ritrovarmi immerso nel liquido amniotico. Un ribollente liquido amniotico.
Non è un luogo che conosco e non so come ci sono arrivato… o chi ero quando ci sono arrivato. Ma ora sono tornato a essere me stesso e mi trovo in un’accogliente vasca da bagno con idromassaggio. Quello che vedo del mio corpo è pieno di segni bluastri. Devo essere caduto o andato a sbattere contro un muro un bel po’ di volte, mentre ero sbronzo. Ma la buona notizia è che Danielle sta bene e l’accappatoio bianco le dona moltissimo, nonostante il livido che ha su uno zigomo.
“Bentornato”, mi dice lei. “Lo sai che mi hai salvato la vita?”
Forse dovrei dirle che non sono stato io… ma non sono sicuro che mi crederebbe. Invece le propongo: “Perché non vieni a tenermi compagnia qui dentro?”
Lei sta per rispondere, ma le suona il cellulare. Parla brevemente, poi con un sorriso triste mi dice: “Scusami, ma forse è meglio che tu te ne vada. Fra due ore devo essere all’aeroporto di Malpensa a prendere mio marito.”
Ah.
Deve essere a Malpensa a prendere suo marito.
Honni soit qui mal y pense.
D’altra parte forse tra noi non potrebbe mai funzionare. Avrei sempre il timore che diventi un rapporto incestuoso.
***
In strada mi accorgo che ho qualcosa di pesante nella tasca del trench. Kowalsky mi ha lasciato uno dei suoi revolver. E in quel momento mi viene in mente che in questa storia è rimasto ancora un conto in sospeso.
Trent’anni fa Barroni ha rivelato a Sigma che Kowalsky, detective privato in contatto con i servizi segreti israeliani, era sulle sue tracce. In questo modo, l’assistente dell’investigatore si dev’essere messo in tasca qualche soldo e, soprattutto, si è appropriato del lavoro e della famiglia di Kowalsky. Probabilmente la povera vedova gli è tuttora riconoscente per questo.
E, per essere sicuro, il fetente ha fatto sparire dall’ufficio ogni traccia dell’indagine dell’investigatore. Per tutto questo tempo ha creduto di averla fatta franca.
Ma adesso Barroni ha fatto il bis: ha contattato Alfredo Marini e gli ha detto che Danielle stava indagando sulla sua famiglia. E quello, tale padre tale figlio, ha sequestrato la mia amica nel timore che qualcuno gli facesse scontare le colpe di Sigma. E le proprie: di sicuro anche Alfredo Marini aveva qualcosa da nascondere, dato che sembrava pronto a uccidere Danielle, dopo averla interrogata.
Che cosa farebbe Kowalsky al posto mio? È stato per un po’ nella mia testa e credo di essere arrivato a conoscerlo, in qualche modo. Non credo che, per quanto possa odiare il bastardo che lo ha tradito due volte, vorrebbe far rivivere alla moglie il trauma di perdere l’uomo che ha al suo fianco. Ma di sicuro gli darebbe una bella lezione.
Barroni se la merita.
Poi, forse, Kowalsky – o il suo fantasma nel Borsalino che ho in testa – potrà riposare in pace.
Entro nel primo bar e ordino un doppio whisky, senza ghiaccio. Il primo di una lunga serie.
Potrei anche lasciar perdere, ma ormai so come sono fatto. Non riesco a evitare di mettermi in certe situazioni. In questi anni ho cercato di cambiare, ma non ci sono mai riuscito. Quindi perché continuare a provarci?
Non si sfugge all’accoppiata…
CACCIATORE & BORSALINO.
© Andrea Carlo Cappi, 2007