A scuola mi danno il pane

A scuola mi danno il pane CorriereAlManfu (il nome significa «pieno di felicità») ha detto: «Mi piace molto la scuola, possiamo avere pane con il latte a pranzo e si imparano un sacco di cose belle».

Quali motivazioni possono spingere una comunità a favorire il sorgere di una scuola per l’infanzia? Vale la pena di fare una seria riflessione su un argomento tanto delicato, prima di affrontare questa mia nuova ricerca storica che parte dal lontano 1846 per parlare della prima scuola per l’infanzia sorta a Castelceriolo, almeno la prima di cui si ha notizia.

Ho infatti trovato, aiutato solo dalla fortuna, un volume che riporta dei documenti molto importanti che rischiavano di andare perduti in mezzo alle anticaglie di un banchetto da fiera ed il destino ha voluto che l’interesse da parte mia coincidesse con un nuovo progetto che è destinato a coinvolgere l’Opera Pia Franca Novelli che fino ad una decina di anni fa era la scuola materna di questo paese e che è adesso abbandonata e decadente.
Tornando alle motivazioni, mi sembra che quelle che hanno stimolato e mosso i nostri antenati castelceriolesi fossero molto più sentite con convinzione rispetto ad oggi.
Infatti, mentre si fa un gran parlare della necessità di investire nella scuola, nella cultura, nella ricerca, eccetera, nei fatti invece sembra sempre più evidente la perdita di contatto della scuola pubblica rispetto alle sfide del futuro. In molti pensano che in fondo lo studio sia una perdita di tempo rispetto ai ritmi incalzanti dell’innovazione portata da una globalizzazione selvaggia che non può più tener conto delle problematiche dell’istruzione di massa, mentre da ciò che vediamo venire avanti, in un prossimo futuro solo le eccellenze formate nelle scuole private potranno trovare accoglienza, mentre le masse paiono destinate a ruoli sempre più subalterni di cittadini-consumatori con basso livello di istruzione ed ancora più basso livello di responsabilità partecipativa.

”, costituita da gente con pochi interessi primari e niente di più, plagiati dai mediaQualche analista politico è arrivato a parlare di una fascia sempre più ampia di cittadinanza “inutile televisivi e dai moderni strumenti di comunicazione di massa, incapaci di distinguere una vera informazione da un messaggio spazzatura o quelle che con un termine inglese chiamano “fake-news”, false notizie. La moderna propaganda politica fa largo uso di questi strumenti che servono per catturare l’attenzione e soprattutto il voto di una massa potenziale di cittadini che vogliono sentirsi dire quello che più accarezza la loro voglia di semplificazione dei problemi, o peggio ancora la loro rancorosa voglia di rivincita per superare le frustrazioni vere o presunte di cui si sentono prigionieri. Inutile dire che il pericolo per la tenuta democratica della nazione è molto alto, soprattutto se si pensa all’interesse delle nuove generazioni.

Il compito di favorire non soltanto l’istruzione delle nuove generazioni ma la loro intera formazione umana e morale necessaria per affrontare la competizione globale che le attende, spetta alle famiglie prima ancora che agli insegnanti incaricati della scuola pubblica, ma vediamo con quanta superficialità, opportunismo e malafede vengono affrontate le problematiche dell’educazione.

Perfino coloro che sembrano più intransigenti, invocano il ripristino dell’autorità nelle scuole e si dichiarano tradizionalisti in difesa del ruolo degli insegnanti, poi di fatto pretendono un occhio di riguardo per il loro figlio, che non è il birbante che si dice o l’ignorante che sembra essere dai risultati ottenuti. Molte mamme in modo assurdo difendono i loro pargoli e incolpano le insegnanti di non saper fare il loro lavoro, senza aver avuto la benché minima esperienza nel ramo.

Inoltre, l’incremento della robotica applicata al lavoro manuale rischia di mettere fuori gioco molte specializzazioni, anche quelle più moderne, mentre si salveranno probabilmente soltanto quelle che sapranno innovare veramente.

E’ una fuga in avanti continua e coloro che rimarranno indietro rischiano di restare “cittadinanza inutile”, un peso per collettività, se non si adatteranno a fare lavori faticosi, rifiutati da molti fra i nostri giovani che paiono allergici al sudore. Forse gli abbiamo insegnato che il solo sudore nobile è quello che si consuma in palestra, mentre quello dei campi e delle officine è ormai confinato nella retorica della letteratura di un tempo.

Il fatto è che in questo comparto la concorrenza si è allargata con l’arrivo di immigrati da ogni parte del mondo, attirati dai lustrini della nostra pubblicità che sembra descrivere l’Italia come il paese del bengodi, mentre le poche risorse che ci restano vengono sprecate davanti ai nostri occhi provocando in noi indignazione ma non la reazione in direzione positiva.
Cerchiamo quasi sempre le colpe al di fuori, ma mai dentro di noi. Il nemico è lo straniero, sia quello ricco che sta in Europa e pretende di comandare come la “culona” tedesca, sia quello povero che arriva fra la massa dei disperati dei barconi.

Un ulteriore argomento di riflessione dovrebbe essere il fatto che fra i paesi che investono di più in innovazione continua, anche attraverso l’istruzione nelle scuole pubbliche, risulta esserci proprio la Cina, che sta facendo passi da gigante inventando soluzioni tecnologiche sempre più all’avanguardia, in concorrenza con la mitica Silicon Valley californiana, che invece pare in affanno, almeno in prospettiva di corto periodo.

Il paragone con la Cina mi offre lo spunto per giustificare il motivo per cui ho esposto la commovente fotografia del bambino soprannominato dai compagni di scuola “Fiocco di neve”, foto che ha fatto il giro del mondo, grazie al maestro che ha lanciato l’immagine sui social network.

Questo bimbo con la faccia e le mani cotte dal freddo, con i capelli e le sopracciglia bianche di brina, ha commosso il mondo per la sua tenacia, che gli ha permesso di affrontare da solo un percorso a piedi di circa 4 kilometri a 9 gradi sotto zero al solo scopo di non perdere le lezioni e poter frequentare la sua scuola. Ha detto di essere contento di poterlo fare (non a caso il suo nome Manfu in cinese significa “pieno di felicità”) perché a scuola può mangiare il pane con il latte a pranzo, ma soprattutto perché a scuola si imparano un sacco di cose belle.

Manfu nella sua piccola mente ha centrato il problema: a scuola si va per imparare tante cose belle che possono servire per crescere nella vita, per trovare nuove soddisfazioni ed esperienze utili, poiché solo attraverso la conoscenza e la curiosità di imparare sempre di più l’uomo realizza se stesso. E qui mi sovviene l’insegnamento del sommo padre Dante, che, se pur di sfuggita non avendo fatto le scuole alte, ho conosciuto tanti anni fa e non ho mai dimenticato. L’Alighieri in un versetto dell’Inferno scrive: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”

E’ la sintesi della personalità di Dante, il quale considerava la conoscenza il presupposto base per la valutazione di una persona. Magari questo fosse il metro di giudizio per la scelta dei nostri politici! Invece è stato scelto quale rappresentante del popolo il senatore Antonio Razzi, il quale né si vergogna di far ridere il mondo quando parla né quando dice di aver simpatia per il dittatore nord coreano con i capelli a spazzola. Boh!, ma forse anche questo è da attribuire ai maneggi della Merkel, quella brutta culona.

Ho fatto solo una battuta, ma non è da escludere che qualcuno lo pensi davvero
La vicenda di “Fiocco di Neve” mi ha fatto venire in mente la storia di un’altra bambina del nostro paese che vi voglio raccontare, cioè di mia madre Maria, conosciuta allora da tutti con il diminutivo di Mariettina.

Era della classe 1916 ed era perciò nata nel pieno della prima guerra mondiale, durante la quale suo padre, il nonno Giovanni, aveva dovuto fare il soldato al fronte fra il Trentino ed il Cadore ed aveva potuto abbracciare la sua bambina solo dopo il ritorno a casa all’armistizio del 1918. Nel periodo scolastico fra il 1922 ed il 1928/29 la mamma Mariettina aveva abitato al Giaròn (la cascina Balba) dove il nonno era affittuario. La cascina che tutti i castelceriolesi autentici conoscono, che si trova a ridosso dell’argine della Bormida, dista dalle scuole di Castelceriolo proprio circa 4 kilometri, la stessa distanza percorsa ogni giorno dal piccolo Manfu.

Raccontava la mia nonna Anna (Nèta per chi la conosceva in paese) molti aneddoti del tempo della vita in cascina, al tempo in cui i bambini come me senza la distrazione della televisione (si era tra la fine degli anni quaranta ed i primi anni cinquanta), stavano alla sera davanti al camino ad ascoltare i racconti che si facevano in famiglia. Uno dei racconti più ascoltati era la vita che mia mamma e la sua sorellina Ines appena di due anni maggiore, dovevano fare per andare a scuola a piedi dal Giaròn fino in paese, con la strada Grilla non ancora asfaltata e quella che la collegava alla cascina neppur inghiaiata, con l’orario di allora che andava dalle nove del mattino fino a mezzogiorno e poi dalle due alle quattro del pomeriggio. Le due bambine affrontavano il percorso a piedi sia con la bella che con la brutta stagione, camminando al mattino da sole e al pomeriggio d’inverno, quando l’oscurità della sera incominciava ad incombere, c’era il nonno che le aspettava sul ponte della roggia per accompagnarle a casa prima che il sole tramontasse del tutto. La mamma raccontava che l’unico sostegno che trovavano per strada era il saluto dei carrettieri che andavano per la Grilla in Alessandria o al fiume per il trasporto della ghiaia e della sabbia, oppure il saluto delle donne impegnate nel lavoro dei campi, al tempo in cui il grano veniva sarchiato con la zappa stretta passando tra le file per impedire all’erba di prendere il sopravvento. Forse allora i bambini non correvano grossi pericoli per strada, come succederebbe adesso con il traffico, ma la mamma diceva del terrore che la assaliva quando per caso incrociavano qualche carovana degli zingari, che la gente diceva rapissero i bambini per venderli e indurli poi all’accattonaggio. La mamma raccontava della pioggia e del gelo che d’inverno dovevano affrontare e delle manine gelate, nonostante i guanti di protezione, che le bloccavano al mattino le piccole dita che dovevano sostenere la cannuccia con il pennino da intingere nell’inchiostro infilato nel banco. Raccontava anche che alcuni bambini che arrivavano a scuola dalla lontana tenuta Sardegna portavano i segni dei geloni sulle orecchie scoperte, mentre loro avevano la fortuna di avere un berrettone di feltro di lana cucito dalla zia Delfina con il para orecchi di pelo di coniglio.

Guardando la fotografia del piccolo Manfu, con quella misera giacchetta con il colletto aperto e le guance vermiglie sotto quel piccolo caschetto di capelli bianchi di neve o di brina, mi viene da pensare che tutto sommato la mia mamma era più fortunata di lui e che se lo conoscessi gli farei avere un bel giubbotto imbottito, un bel paio di guantoni da sci e un berrettone di pelo bianco con la visiera. Se lo merita di sicuro, dopo quello che ha detto
Se l’umanità avrà ancora un futuro, questo è senz’altro anche suo. Bravo Manfu!

 

Luigi Timo – Castelceriolo