Quale miglior autore da presentare in una domenica tutta natalizia se non uno scrittore del calibro di Giorgio Bona, voce della miglior narrativa di casa nostra? Autore peraltro pronto al suo esordio (secondo voci ben fondate) sul mercato editoriale europeo con traduzioni in lingua tedesca e portoghese. Sono profonde le radici che legano Bona alla sua tradizione famigliare in Valsusa e parallelamente alla nostra realtà storica e linguistica, proprio lì dove la sua idea di terra e di territorio si traducono in un solo elemento inscindibile. Dopo l’esordio con una raccolta di racconti dal titolo Ciao, Trotzkij (che si vende e si ripubblica ancora oggi) la produzione letteraria di Giorgio Bona non ha subìto alcun rallentamento accrescendo la propria forza di narrativa sociale. Un’evoluzione che parte da romanzi come Il bosco dei baci spenti, Chiedi alle nuvole chi sono, L’allungo del mezzofondista, fino al grande successo di Sangue di tutti noi e al più recente Tav noir.
La proposta per questo appuntamento con Allibri è un regalo dell’autore, ovvero un estratto del suo nuovo romanzo ancora in fase di stesura ma pronto in tempi ravvicinati. Si racconta della vicina Casale e della tragedia dell’amianto che ha colpito un’intera comunità e del mesotelioma che ha sacrificato troppi lavoratori sull’altare della produzione senza controllo. Come nella maggior parte dei romanzi in lavorazione, ci troviamo di fronte a un Senza Titolo, anche se magari il titolo stesso vaga nella testa dello scrittore, inquieto come un’anima pronta a concedersi al lettore.
Inavvertitamente, un respiro.
Le giostre arrivarono a Casale Monferrato con una settimana di ritardo. Quel giorno, il sette aprile, i carrozzoni dei giostranti occuparono Piazza Castello, a ridosso del centro cittadino. Il viale della passeggiata sul Lungo Po era invaso da corde tirate con i loro panni stesi.
Si poteva immaginare il periodo del Marchesato, quando Casale ottenne il titolo di città con il castello sede della corte. Nulla dava l’impressione di ricordare quei tempi in questo giorno grigio e triste in cui traspariva tutta l’opacità del paesaggio. Capitale storica del Monferrato, adagiata tra la pianura e la collina e attraversata dal maestoso e regale passaggio del Po conobbe i fasti regali con i Paleologi prima e i Gonzaga poi, seguita da famiglie di nobili e da una ricca borghesia industriale. Poi erano arrivati i pionieri dell’amianto e la città cominciò a vivere la violenza e l’arroganza di questa nuova imprenditoria industriale.
Ogni anno il sindaco inaugurava la Fiera di San Giuseppe. Il primo di aprile era l’inizio della festa. Durante quella ricorrenza decise di non andarci e non si preoccupò di mandare qualcuno a sostituirlo. C’era da ricoprire il solito ruolo istituzionale con il taglio del nastro di apertura. Le associazioni erano arrabbiatissime per l’assenza delle istituzioni, ma qualcosa era nell’aria.
Il sindaco Sodano accese l’interruttore e la luce rischiarò di colpo ogni angolo del suo ufficio. Socchiuse gli occhi, riaprendoli adagio per abituarli al chiarore improvviso. Sulla scrivania si trovavano diversi documenti che stava esaminando da alcuni giorni. I faldoni che li contenevano riportavano tutti la prima lettera dell’alfabeto, la lettera A.
A come amianto.
Il clima era particolarmente mite. Guardò l’orologio. Non erano ancora le sette. Il comune era deserto. Si aggirava nervoso e aveva detto esplicitamente alla sua segretaria di disdire tutti gli appuntamenti perché non voleva vedere nessuno. Ordine tassativo non passare telefonate. Girava tra le sue mani nervose quell’ordinanza numero 83 che aveva pensato e ripensato prima di renderla effettiva. Aveva il timore di qualche ripercussione, ma le pressioni che subiva da tempo dalle associazioni sindacali e dall’ordine dei medici non gli avevano lasciato scelta.
La molla che fece scattare il provvedimento cominciò un paio di mesi prima quando il dottor Saverio Bordone, suo amico d’infanzia e docente di medicina all’università di Bologna suonò con insistenza il campanello di casa sua e dopo anni che non si incontravano, invece di salutarlo, cominciò ad inveire con frasi quasi vicine all’insulto. Cosa aveva da lamentarsi Bordone? Lo capì subito dopo, quando lo ebbe di fronte. Era venuto a Casale a trovare sua madre gravemente ammalata. Mesotelioma Pleurico, il tumore dei polmoni provocato dalla fibra assassina dell’amianto. Tutto per colpa dell’Eternit, quella maledetta fabbrica del quartiere Ronzone, a neanche un chilometro dal centro abitato. Per anni era stata il benessere di intere famiglie, adesso era un produttore di morte.
“Tu sei il sindaco,” aveva gridato il dottore. “Fermali, devi fare assolutamente qualcosa.”
Aveva voltato le spalle, andandosene. Forse piangeva, non lo poteva più vedere in faccia, lo immaginava con le lacrime agli occhi, lacrime che avrebbe visto piangere ancora in futuro.
Fu quell’incontro, più che le pressioni ricevute, a spingerlo a emettere il provvedimento. L’ordinanza prevedeva la chiusura immediata dello stabilimento e la proibizione della produzione di amianto su tutto il territorio casalese.
Era un provvedimento forte da parte sua, massima istituzione della città. I produttori di amianto avrebbero impugnato immediatamente l’ordinanza.
Era lì che bisognava organizzare una forma di resistenza. Guai a cedere. Non poteva tirarsi indietro proprio adesso anche se era consapevole che gli scontri con le multinazionali hanno sempre un’unica soluzione. Ma lui doveva fare qualcosa e subito. La sua coscienza lo avrebbe rivoltato per il resto dei suoi giorni.
Si destò dal torpore in cui era precipitato. Non sapeva quanto era rimasto in quello stato. Aveva l’impressione di essersi infilato in un vicolo cieco. Mise in borsa la relazione che la sua segretaria aveva battuto con la vecchia Olivetti nell’ufficio accanto al suo.
Nella relazione, approvata da tutto il consiglio comunale dove nessun consigliere aveva osato obiettare o esprimere contrarietà, chiedeva l’intervento dell’Unità Sanitaria Locale affinché attuasse un supporto tecnico e scientifico con l’Amministrazione.
I rilevamenti condotti con molta attenzione avevano prodotto dei risultati drammatici. Casale Monferrato era seduta su una polveriera pronta ad esplodere. Il verdetto fu atroce perché era stato rilevato un forte inquinamento con la fase di trasporto dell’amianto grezzo in arrivo allo stabilimento e dei prodotti finiti in partenza dai magazzini generali. Queste operazioni venivano fatte con mezzi scoperti che attraversavano da un lato all’altro la città, lungo un percorso sempre uguale. Per non parlare di rilevamenti fatti sul Lungo Po inquinato dagli scarti liquidi e dalla pulitura delle macchine che attraverso un canale raggiungevano il fiume. Per oltre mezzo secolo le acque intrise di amianto avevano lasciato una spiaggia contaminata da scorie.
Inoltre, vecchissimi filmati dell’Istituto Luce raccontavano di un trenino a scartamento ridotto che collegava Via Oggero con la stazione ferroviaria distante circa un paio di chilometri, dove arrivavano sui binari dedicati i convogli carichi di amianto. All’inizio erano sacchi di iuta, poi di carta e, infine, di materiale plastificato.
Eppure quella fabbrica era considerata un fiore all’occhiello non soltanto della città di Casale, ma di tutto il Monferrato, un impianto moderno che aprì prospettive occupazionali inaspettate.
Sodano era pervaso dallo sconforto. Lui aveva vissuto fin da bambino, in prima persona, come un impatto di quel tipo poteva arrivare a stravolgere una società. La fame atavica di un mondo contadino che veniva lacerata e sconfitta con il miraggio di un impiego nella grande industria che pareva per molti la conquista dell’America. E adesso? Certo era un lavoro ben retribuito e rappresentava la garanzia di un futuro stabile e duraturo per i propri figli non più costretti a fare i braccianti spezzandosi la schiena nei campi sempre a combattere contro calamità naturali come la filossera o una grandinata che in poche ore ti porta via quello che hai costruito in mesi di duro lavoro.
Aveva un po’ nostalgia di quei tempi. Ma la fabbrica era il futuro e produceva il materiale del futuro.
Raccolse tutte le sue carte e le mise dentro la borsa. Quella borsa in questi ultimi giorni era diventata la sua inseparabile compagna. “Devi solo portarla a dormire con te” aveva detto sua moglie con un battuta scherzosa per sdrammatizzare la situazione che lui stava vivendo in sintonia con tutta la città. Non aveva risposto. Era attraversato da tanti ripensamenti. Si chiedeva continuamente dove aveva sbagliato e quanti avevano sbagliato prima di lui. O erano consapevoli e lo avevano fatto volutamente? Era un dubbio che perseguitava mentre si chiudeva la porta dell’ufficio alle spalle.
Tra i suoi documenti inserì anche il materiale pubblicitario che la fabbrica aveva diffuso. Un opuscolo riportava: ecco a voi la pietra artificiale. Questa immagine si era imposta agli occhi dei casalesi. Tutto quello che era eternit sapeva di miracolo. I bambini lo utilizzavano per costruirsi le capanne nei giochi, gli adulti per delimitare orti e giardini e piantumare cortili. Inoltre molti ne avevano approfittato per costruire casette abusive in riva al Po che rappresentavano l’evasione dalla città e che lui con una successiva ordinanza avrebbe fatto rimuovere come costruzioni abusive.
Pioveva. L’asfalto sembrava fumare e un fiume d’acqua correva lungo la strada. Il cielo era piombo e l’erba sul ciglio dei fossi aveva il colore del fango.
Alle sette di mattina, le serrande ancora chiuse e le tende abbassate, la città pareva dormire, un sonno silenzioso e caldo, come la morte.
Il bus fece scendere i passeggeri sotto una tettoia d’amianto che non riusciva a ospitare tutti. Il sindaco aprì l’ombrello, inutile, visto la sferza del vento che lo piegava e sembrava strapparlo dalle sue mani. Si diresse verso la fabbrica come se niente fosse. Lo stavano aspettando.
La grande scritta Eternit in rosso e con il capolettera elegante capeggiava come un vanto su una delle pareti laterali dipinte di giallo.
Si entrava in un altro mondo e, che si arrivasse dalla città o dalle colline del Monferrato, lo spettacolo deprimente era sempre uguale. Lì si sentiva, trapelava l’opacità di un paesaggio, un mondo a parte, la frontiera, i confini.
Una carcassa d’auto arrugginita sul prato si trovava appena varcato il cancello. Era il simbolo dell’incuria ma anche del malumore che serpeggiava dentro la grande fabbrica. Nel frattempo una macchina procedeva di gran carriera senza curarsi delle pozzanghere e bagnava i lavoratori che stavano entrando per il cambio turno. La sbarra si alzò, facendola passare.
In alto, sopra la sua testa, fluttuavano vagoncini vuoti. Il cavo che li sosteneva attraversava l’immenso piazzale della struttura e poi si fermava in mezzo a due piloni metallici dove scaricava la fibrra.
Oltre, un cielo grigio, piombo che sembrava scorrere lento su quel triste scenario.
La sua prima sensazione fu quella di tenere a freno una inutile rabbia. Cercò di vuotarsi gli occhi di tutta l’acqua che si era raccolta, ma era troppa. Li richiuse, fermandosi un attimo davanti alla porta d’ingresso del locale dove tenevano le assemblee. Una voce secca, decisa. risuonò alle sue spalle.
“Che ha, non si sente bene?”
Incrociò lo sguardo dell’ingegner Bolchi, il direttore dello stabilimento, nel suo inconfondibile vestito grigio di vigogna e la sua camicia a righe bianca e azzurra comprata nella boutique più prestigiosa di Casale. Gli rivolse un’occhiata sprezzante mentre lo superava entrando seguito dal suo autista. Fresco di stireria e lavanda non era abituato a essere presente in fabbrica a quell’ora. Solitamente faceva il suo ingresso intorno alle nove, dopo aver accompagnato i figli a scuola ed essersi fermato alla cremeria nella piazza della posta a gustarsi un cappuccio con un cornetto appena sfornato che il barista teneva ogni mattina da parte per lui.
L’automobile si fermò davanti alla palazzina degli uffici dove un addetto della sicurezza si apprestò ad aprire la portiera per far scendere il direttore. Sembrava di umore nero. Senza ricambiare il saluto salì al piano superiore della palazzina dove si trovava la direzione.
L’ingegner Saverio Bolchi era un dirigente di seconda fascia, responsabile delle risorse umane e delle relazioni esterne. Uomo di fiducia della proprietà. Bella presenza, discreto, non molto simpatico e, come si dice, con un certo pelo sullo stomaco. Mai assunto un comunista militante o uno stupido raccomandato e se ne vantava anche nelle relazioni sindacali. Persona di discreta cultura e di un certo ingegno. Nessuno lo avrebbe mai rimosso da quell’incarico. Ma adesso il suo posto, dopo sette anni, era a rischio. Se lo stabilimento chiudeva, lui si trovava a spasso. E in quel marasma la proprietà non si era fatta vedere. Aveva delegato fior di avvocati a rappresentarla, convinta che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Lui non la vedeva così. Da quando dirigeva lo stabilimento era la prima volta che si trovava in difficoltà.
Sodano, nel frattempo, percorse con lo sguardo l’enorme recinzione che perimetrava la fabbrica. Adesso la vedeva come un oggetto estraneo al mondo, quell’enorme sgorbio che era stato parte integrante della città.
Il cortile davanti agli uffici. Un’adunata. Aurelio Tinca, segretario della FIOM del capoluogo, con il megafono in mano invitava i turnisti a sospendere il lavoro e a portarsi davanti alla Direzione. La comparsa dell’ingegner Bolchi non era passata inosservata. Lo guardavano tutti con reverenziale timore, ma anche con occhiate di disprezzo.
Mentre il consiglio di amministrazione doveva incontrare il sindaco, nella mensa, contemporaneamente, venne organizzata un’assemblea. Pochi giorni prima c’era stato un vertice sindacale per il rinnovo del contratto che prevedeva un’indennità di venti mila lire scarse in busta per chi respirava le polveri. Adesso la situazione era cambiata. L’ordinanza del sindaco parlava chiaro. L’azienda aveva minacciato di lasciare a casa trecentocinquanta lavoratori. Un tempo, negli anni settanta, era arrivata a cinquemila unità circa con un’attività produttiva che si svolgeva su tre turni dentro una superficie di novanta tremila metri quadri.
Il giorno prima alcuni cittadini, uniti con gli studenti del liceo scientifico, si erano ritrovati davanti al tribunale. I lavoratori avevano intenzione di dirottare il camion con le materie prime e scaricarlo davanti alla porta d’ingresso. La polizia finì per rimuovere il blocco e il sindaco si trovava in azienda per fronteggiare la difficile situazione che si era creata. Il presidio fu sgombrato con molte difficoltà e i dimostranti dichiararono di attendere l’esito dell’incontro dove chiedevano al tavolo la presenza della proprietà.