Ai muri dello spogliatoio del campetto di San Pellegrino (che negli anni sessanta sarà sempre sede del ritiro precampionato della squadra nerazzurra) aveva fatto appendere cartelli con slogan da autentico lavaggio del cervello.
Questi: “Nella vita si deve avere l’ambizione di raggiungere il traguardo più alto possibile: il tuo traguardo è il titolo”, “Difesa non più di 30 gol. Attacco più di 100 gol”, “Classe più preparazione atletica più intelligenza = Scudetto”, “Chi gioca individualmente gioca per l’avversario, chi gioca per la squadra gioca per il risultato”, “Il calcio moderno è velocità: gioca velocemente, pensa velocemente, marca e smarcati velocemente”, “Nel calcio chi non dà tutto non dà niente”. (Danilo Sarugia)
Frasi tipo “Bisogna vincere e vinceremo” ricordava Peppino Prisco aggiungendo, con la consueta ironia: Ma bisogna capirlo: lui veniva dalla Spagna di Franco, c’era ancora la retorica della dittatura. Qui si sorrideva, dimenticando che una simile retorica l’avevamo subita anche noi per tanti anni.
Grafomane compulsivo
Il grido di Acca Acca è caratteristico e dice tutto: “taca la bala!” racconta Brera, citando la versione italo-ispanica del francese “Attaquez le ballon!“ usata del mago per convincere i suoi a correre ancora un po’ di più, credo calcistico assoluto e perseguito con determinazione feroce. Chi non obbediva era fuori.
La pagheranno, per esempio, il bomber Angelillo, colpevole di destinare la sua vigoria più che all’Inter alla soubrette Ilya Lopėz (la Wanda Nara di allora era in realtà bresciana, si esibiva in un night di piazza Diaz e all’anagrafe faceva Attilia Tironi) o il fragile Ferruccio Mazzola, primo ad avere il coraggio di raccontare delle bustine piene di “zucchero” somministrate dal mago ai giocatori prima di scendere in campo (dalle pasticche di simpamina, il farmaco più diffuso per tenersi su, si è passati alla corteccia surrenale, scrive Alfio Caruso). Ferruccio, sfortunato in carriera e nella vita, purtroppo trovò consolazione nel bicchiere, come ricordiamo per il periodo in cui allenò (bene) i grigi.
“Quaderni, agendine, blocchi, raccoglitori (scrive Pietro Cabras, mentre Gigi Garanzini lo definisce “grafomane compulsivo”). Dentro, fogli a quadretti, scritti con la penna nera, impreziositi da sottolineature rosse. Schemi, appunti, disegni, moduli, riflessioni, cancellature ordinatissime, e ancora motti, incitamenti, frasi, urla persino.” “Un giorno li darai a Giacinto, mi disse…” racconta Donna Fiora, che ricorda come Helenio vedesse nell’innocente Facchetti (un altro) suo figlio: “Giacinto rappresentava la purezza, non era un uomo corrotto, era come Helenio”.
Il suo laboratorio più riuscito di sempre
“L’opera degli intriganti e degli invidiosi era pressante, quasi asfissiante. Tant’è vero che fui indotto ad accettare le eccellenti offerte fattemi e firmare un contratto che mi legava a una società italiana: l’Inter di Milano.”
É il 22 maggio del 1960 (racconta Sarugia) quando Herrera, sul campo spelacchiato del vecchio Moretti – a Udine – vede un’Inter stanca e sofferente… rientra in Spagna sgomento e quasi pentito. Ma i cattivi pensieri passano subito: in quella banca svizzera gli hanno versato o no settantamila dollari sonanti?)
H.H. scrive, studia, poi trasferisce sul campo. L’Inter diventa il suo laboratorio più riuscito di sempre. Un pezzo per volta, assembla un ingranaggio che si rivelerà perfetto. (Cabras)
…quel suo modo pittoresco di chiamarci, storpiando i nomi, era un modo per tenerci sotto la sua ala, in posizione di subordine. Così Giacinto diventò una volta Falchetti, e poi definitivamente Cipelletti (ricorda Maciste Bolchi) e quest’ultima etichetta la portò sempre con sé, nell’abbreviazione veloce di Cipe.
Inaugura i lunghi ritiri, Herrera, in cui vige una disciplina ferrea. Molti li patiscono, qualcuno sbotta (Cabras). Chi sbottava finiva nella lista dei giocatori da vendere come, ogni estate, Mariolino Corso. H.H. lo apprezzava ovviamente per le doti sul campo, ma non poteva sopportare che gli rispondesse, con quella vocina fessa, il molto veneto e purtuttavia comprensibilissimo “tasi mona”.
Era l’Inter che iniziava con Sarti-Burgnich-Facchetti. Era l’Inter che vinceva la prima Coppa dei Campioni a Vienna grazie ai due gol del giovanissimo Sandrino Mazzola, ma anche grazie al biondino Tagnin di Valle San Bartolomeo, che il mago volle marcatore asfissiante di Di Stefano.
Era l’Inter dove i due giocatori davvero fondamentali per H.H. erano un livornese, con cui non andava d’accordo, e uno spagnolo che aveva voluto fortemente.
“Un solo piede di Suarez vale più di due d’un qualsiasi altro giocatore” scrive il mago del centrocampista già protagonista delle “sue” vittorie a Barcellona.
H.H. era, con ogni probabilità, secondo il racconto di tutti, miope: preparava benissimo le partite poi, durante i novanta minuti gli undici in campo dovevano spesso arrangiarsi, e allora le disposizioni le dava Armando Picchi, capitano, libero, destinato a diventare un grande allenatore se un male bastardo non l’avesse ucciso giovanissimo.
Siamo talmente forti che vinciamo senza scendere dal pullman
Rocco mette le mani sulle spalle di Herrera e dice: “Complimenti, il vero calcio l’ha giocato Lei”. “Ah, gracias” dice Herrera: “gracias”. Questo è il derby, paesani. (Gianni Brera, ‘Herrera restituisce a Rocco il k.o. tattico dell’andata’, Il Giorno 5.2.1962)
Lo dicono tutti: gli allenatori dovrebbero ringraziare Herrera, prima di lui erano pagati molto meno dei giocatori, e il loro nome manco si scriveva nei tabellini sui giornali, con lui tutto cambiò.
Con lui e, ovviamente, col suo rivale (con cui era in realtà in ottimi rapporti), il paròn Nereo Rocco alla guida del Milan. Quando Milano era la capitale mondiale del calcio.
La frase: “Siamo talmente forti che vinciamo senza scendere dal pullman”, Herrera la disse quando allenava in Spagna. Da gran personaggio qual era, e infatti tutti concordano che il suo erede meglio riuscito sia Mou.
«Mourinho lo conosco dalla tv e per via del telefono – dice la vedova di Herrera. Tramite un amico gli avevo fatto recapitare una copia del mio libro su Helenio, Taca la bala. Dopo un po’ di tempo, ero a Parigi e nel cuore della notte mi arriva una telefonata. Sento dall’altra parte della cornetta una voce strana, che mi dice: “Signora Fiora, volevo ringraziarla per il libro. È stupendo, suo marito era davvero un genio…”. Era Mourinho in persona, anche un po’ emozionato adesso che ci ripenso».
La Gandolfi stessa riconosce in lui l’erede del marito: «È un uomo intelligente, molto affascinante e sicuramente ha orizzonti più vasti rispetto agli allenatori italiani che per natura sono molto limitati, anche se c’è una stampa che li fa passare per geniali… È un portoghese attivo, non malinconico. In entrambi c’è il gusto del vestirsi bene, sanno essere eleganti alla stessa maniera. Tutti e due hanno idee molto chiare: sono necessarie se si vuole imporle agli altri. E poi un carisma fuori dal comune. Helenio aveva di più il senso della battuta, sempre surreale. Lo aiutava anche la lingua, lo spagnolo si presta meglio. José ha voluto visionare gli appunti che mio marito ha sempre tenuto sino agli ultimi giorni, scriveva su dei quaderni fitto fitto in una lingua tutta sua (partiva dal francese e lo impastava con il castigliano).”