Le puntate precedenti:
El partido del siglo e l’abatino (prima parte)
El partido del siglo e l’abatino (seconda parte)
Il mondiale del 1986 non si doveva manco giocare in Messico. Lo avevano assegnato alla Colombia, dove in quegli anni peraltro si stavano più che altro disputando i mondiali dei “narcos” (come racconta in modo spettacolare la serie tv così intitolata), anche se i legami col futbòl erano comunque molti e sono ormai noti, dalle squadre possedute direttamente dai più potenti trafficanti (il Milan di Sacchi si giocò una coppa Intercontinentale con il Nacional di Medellin di Pablo Escobar), al folklore del campo costruito nella specie di carcere “La Catedral” in cui era (circa) rinchiuso lo stesso boss, e dove fu invitato a giocare anche Maradona, per restare in tema.
Dopo la rinuncia della Colombia si ripiegò sul Messico, già pronto con gli impianti usati nel 1970, e nonostante il devastante terremoto che colpì la capitale nel settembre 1985 causando la morte di oltre 10.000 persone e danni ingentissimi alle cose. Noi al mondiale arrivammo da campioni in carica. Bearzot non ebbe il coraggio di rinunciare ai suoi ragazzi, a cominciare da Pablito Rossi, che aveva lanciato giovanissimo otto anni prima in Argentina e che (dopo le prime quattro partite orribili) era stato l’eroe di España ‘82.
Pablito era in fondo alla fase discendente della carriera. Al primo incontro dell’eliminazione diretta ci battè facilmente la Francia di Platini, improvvidamente affidato al controllo del Baresi meno forte, il nerazzurro Beppe, in una partita oltretutto giocata a mezzogiorno, il che non aiutò i nostri logori undici.
Ovviamente di quel mondiale tutti ricordano “la mano de Dios”, quel tocchetto astuto di Maradona che beffò l’imbufalito Shilton nella vittoria dei quarti di finale.
Argentina- Inghilterra era più di una partita. C’erano i precedenti calcistici, il celeberrimo “Animals! Says Ramsey” del 1966 (Alf Ramsey era il c.t. inglese), e quelli drammatici e più recenti della guerra per le Falkland/Malvinas.
Il secondo gol di Dieguito è altrettanto ricordato. Partì dalla propria metacampo, li scartò praticamente tutti, sedette con l’ennesima finta il solito Shilton, l’appoggiò in fondo alla rete.
Doppia felicità per lui. Aveva infatti interpretato uno standard del “maestro”!
Ricardo Bochini aveva segnato così nel 1976 contro il Peñarol nella Copa Libertadores. Uno dei suoi pochi gol. Un giocatore come lui non deve fare i gol, li deve far fare. Un giocatore come lui non corre e non suda.
“Gli parve sempre una contraddizione, oltre a una vera stravaganza, che qualcuno dotato si mettesse a sudare. Il Bocha non ne vide mai la necessità. Per quanto si sforzasse.” Parola di Jorge Valdano, anche lui campione del 1986, che del “maestro” dette in assoluto la definizione più bella: “Come spiegarvelo? Era Woody Allen che giocava a calcio: un corpo insufficiente per qualsiasi cosa, la faccia tipica di un perdente, un talento pungente, veloce, immenso. Era come un ladro che ausculta una cassaforte inespugnabile mentre le sue dita tirano fuori il segreto della combinazione; fino a quando all’improvviso… clic.”
Tra verità e leggenda, invece, ma sintomatico quel che proprio Bochini disse (pare) di Cruijff: Corre molto, però gioca bene.
Ricardo Bochini è la storia dell’Independiente, l’unica squadra in cui abbia mai giocato, dal 1972 al 1991.
Club dell’Avellaneda, dintorni di Buenos Aires, come il Racing in cui ha chiuso la carriera il Principe Milito (oggi la strada intitolata a Diego A. Milito interseca quella intitolata a Ricardo Enrique Bochini, tra i due stadi).
All’Independiente era cresciuto anche un altro ragazzo dell’Avellaneda, “Mumo” Orsi il violinista che con la maglia azzurra vinse il Mondiale del ‘34 prima di tornare precipitosamente in patria quando presagì che essere “oriundo” poteva trasformarsi in fare il soldato (era la seconda metà degli anni trenta). Dell’Avellaneda è anche Gabriel Batistuta, però cresciuto nel rosarino Newell’s ai tempi del Loco Bielsa.
“Sólo le pido a Dios
que Bochini juegue para siempre,
siempre para Independiente,
para toda la alegría de la gente”
A Dio chiedo soltanto, che Bochini giochi per sempre, che giochi per l’Independiente, per la gioia della sua gente. Lo cantano ancora, quando i diavoli rossi ci giocano, nella via a lui intitolata, in quell’Estadio Libertadores che presto sarà “Estadio Ricardo Bochini”.
(Se ve lo state per caso chiedendo, lui è vivo e vegeto).
Oltre che “Diablos Rojos” sono anche i “Rey de Copas” per il gran numero di trofei internazionali vinti, quasi tutti quando il duo che faceva meraviglie era composto proprio da Bochini e da Daniel Bertoni, che vedemmo anche qui da noi (Fiorentina, Napoli, Udinese) dopo la vittoria del Mondiale 1978.
Proprio loro confezionarono il gol decisivo per la vittoria nell’Intercontinentale del 1973 contro la Juventus (finale unica, a Roma), ma il gol in assoluto più ricordato dai tifosi è quello della vittoria del Nacional 1977 contro il Talleres così benvoluto dai generali che avevano preso il potere in Argentina che l’Independiente finì la finale in otto per via di tre espulsioni e parecchie altre decisioni dell’arbitro che è poco definire vergognose.
Sotto 2-1 (si giocava andate e ritorno e in casa dei diavoli rossi era finita 1-1) con tre uomini in meno, quando il cronometro era pericolosamente vicino ai novanta minuti pareggiò Bochini con una delle sue magie.
Avrebbe compiuto ventiquattro anni pochi giorni dopo, si stava rapidamente stempiando, bruttarello c’era nato.
Era l’idolo di un ragazzino di sedici anni che aveva debuttato nell’Argentinos Juniors pochi mesi prima, e che porterà lo stesso suo numero 10 nella storia del calcio mondiale.
Non lo giocò il Mondiale casalingo e vinto del 1978, il “maestro” Bochini, non convocato dal “Flaco” Menotti. Invece lo convocò nel 1986 il “Narigòn” (ah, la meraviglia degli “apodos”) Bilardo, probabilmente anche per le pressioni di quel ragazzino nel frattempo diventato il giocatore più forte del mondo, Diego Armando Maradona.
Non era tra i titolari, anzi giocò in tutto cinque minuti, uno in meno di quelli famosi di Rivera nella finale del ‘70. Entrò nella semifinale contro il Belgio già decisa dai due gol di Diego. Che lo accolse con: “Pase, Maestro, lo estábamos esperando” (un’altra versione è: “Dibuje, maestro”, disegna maestro).
Di certo in quei pochi minuti Maradona lo cercò, provò anche a farlo segnare con un assist, e il suo disappunto quando lo intercettarono dimostra quanto ci tenesse a mandare in porta il “maestro”.
Come da tradizione per l’albiceleste, i numeri furono assegnati seguendo l’ordine alfabetico, eccetto che per il 6, il 10 e l’11 assegnati a Daniel Passarella, capitano del ‘78, a Maradona appunto e a Jorge Valdano. Bochini aveva il 3, per cui l’unica sua apparizione in un Mondiale, per pochi minuti, avvenne con un numero che era lontano anni luce dal suo essere calciatore.
Ed entrò al posto di Burruchaga, che aveva vinto con lui nell’Independiente un’altra coppa Intercontinentale, quella 1984 contro il Liverpool che pochi mesi prima aveva vinto la Coppa dei Campioni ai rigori all’Olimpico contro la Roma.
Già, quel Burruchaga che da oscuro centrocampista del Nantes (si era trasferito in Francia nel frattempo), diventò famoso in tutto il mondo pochi giorni dopo quando segnò, lui comprimario, il gol del definitivo 3-2 della finale contro la Germania, a oggi l’ultima vittoria dell’Argentina e l’ultima nostra storia “messicana“.