Tra la folta pattuglia di autori della provincia, il racconto domenicale di ALlibri è stato gentilmente offerto dalla penna di Paolo Campana, già noto alle cronache letterarie (Cronaca Vera, Nero Press, Delmiglio Editore, Robin Edizioni…) per la sua ricca produzione di narrativa breve che lo ha visto anche ben segnalato in diversi concorsi. In attesa dell’esordio con un romanzo capace di esaltare le sue doti stilistiche vi invitiamo alla lettura di E’ solo un lavoro.
Centellino la luce tra le palpebre socchiuse e mi lascio scivolare dalle spalle un sonno quieto e senza sogni. L’assaporo con misurata lentezza, un bene effimero e prezioso mentre poco alla volta appaiono più definiti i contorni di quanto mi circonda.
Spalanco gli occhi, le pareti immacolate stridono con l’abisso fosco in cui si sprofonda uscendo di qui per l’ultima passeggiata. Sono sdraiato con gli occhi rivolti all’unica finestra al di la della quale un cielo plumbeo accompagna raffiche di vento che agitano le fronde degli alberi, ne scorgo la danza muta fra gli scacchi dell’inferriata a ricordarmi un’umanità che vive e continuerà a farlo anche dopo le 18 di oggi.
Stato del Texas, Huntsville Unit, cella numero 7. Mi tiro su a fatica svuotato dell’energia che ha arso in me il fuoco di un’ultima speranza destinata purtroppo a rimanere tale.
Non me la sento di giudicare me stesso, l‘avessi fatto tempo fa non sarebbe spettato ad altri prendere il posto della mia coscienza. Ma non ne ho avuto la forza. A differenza di quanto si possa immaginare, non occorre essere coraggiosi per uccidere, forse pazzi o arroganti ma non coraggiosi. Occorre esserlo per decidere di non farlo, per fermarsi in tempo. Io non l’ho fatto.
Nella stanza spoglia ci sono un piccolo lavandino proprio sotto la finestra, un tavolino con un’unica sedia e un orologio dalle grandi lancette gialle. Mi alzo e una fitta dolorosa scende dalla base del collo sino all’ultima vertebra. Ho letto da qualche parte che il corpo inizia a invecchiare dopo i venticinque anni, non lo avevo notato sino a ora ma deve essere vero.
Oggi più che mai l’orologio brucia implacabile ogni minuto, a esser sincero non ho mai amato il giallo.
Mi appoggio al lavello e apro un rubinetto a caso. Sono così uguali che ho sempre confuso l’acqua fredda con la calda mentre oggi un dolce tepore m’inonda il viso restituendomi immagini sbiadite.
Rivedo il piglio fiero di mio padre nel vestito della festa e il volto delicato di mia madre intenta a cuocere i biscotti mentre io, bambino, gioco con zucchero e farina.
Alzo gli occhi ma nello specchio non ritrovo gli stessi sguardi, frutto d’una vita pulita, perbene.
Solo la morte è la stessa, immutabile, per ognuno di noi.
La morte.
Ebbro sino all’anima, le ho corso a fianco in una notte di follia e a nulla è valsa l’insolenza di spartire il mio peccato con quel liquore che mi annebbiò il cervello.
La sua presenza greve, oscura, aleggiava intorno a me al processo e oggi, spavalda, mi alita in faccia il suo trionfo.
L’orologio segna le undici.
La berlina antracite del dottor Thomas Morrison, membro del Dipartimento di Giustizia Penale dello Stato, si ferma poco distante l’entrata del padiglione adibito alle esecuzioni capitali. E’ un vecchio modello ma curata come fosse appena uscita dalla concessionaria. Il motore gira che è una meraviglia e Morrison è in orario come sempre, mezzogiorno in punto.
Il medico controlla il palmare dove un post-it virtuale gli ricorda la semifinale di quel pomeriggio, sceglie il numero del suo bookmaker dalla composizione rapida e piazza 200 dollari sulla squadra ospite che in passato gli ha regalato diverse soddisfazioni quindi chiude la conversazione. La facciata anonima e impersonale di quelle dieci celle occulta l’essenza delle vite che vi sono rinchiuse, le dedica un istante poi prende la borsa con gli 86 dollari in droghe che al Dipartimento costa l’iniezione letale e si incammina di buon grado verso l’entrata. Salvo complicazioni alle 18 e 20 sarà tutto risolto e potrà tornare da moglie e figli, non ha la minima intenzione di perder tempo con la seduta post-operativa, un protocollo da novellini al quale la sua esperienza permette di sottrarsi.
Nell’atrio incrocia una donna sulla trentina, il vestito semplice ma ordinato, viso tirato, occhi striati di pianto. E’ tentato di fermarla e chiedere se può esserle utile. Rallenta il passo ma lui è li per un altro motivo. Esita un istante di troppo, la ragazza è già scomparsa oltre l’ingresso.
Ore 15, la guardia ha appena ritirato il vassoio con gli avanzi del pasto, un pranzo da una decina di dollari sui quindici di massimo previsto per legge, del resto sarebbe illogico spendere di più per un cibo che non avrà tempo d’esser digerito.
Mi identifico nel moto delle lancette contando ogni minuto, il trapasso, per la maggior parte delle persone, è qualcosa di repentino e recide i fili dell’esistenza senza concedere il tempo di riannodarne i capi.
Non è il mio caso.
Non ho progetti incompiuti, parole non dette o frasi non scritte, nessun oggetto dimenticato. Mi sono preparato al meglio durante gli anni trascorsi nel braccio della morte per non lasciare nulla in sospeso, per far bella figura e ora sono uno dei pochi privilegiati ai quali è riservato di conoscere con esattezza l’anno, il mese, il giorno e persino l’ora della propria morte.
Ma è un privilegio non semplice da gestire, cosa fareste sapendo che è il vostro ultimo giorno di vita?
Io sono rassegnato e angosciato, tutto qui.
Angosciato per mia moglie e mio figlio, sento un vuoto dentro e un dolore quasi fossero loro ad andarsene e lasciarmi solo.
Anne è venuta a trovarmi anche oggi, “non piangere e pensa al futuro di nostro figlio” le ho detto. Per la prima volta non lo ha portato con sé, voleva risparmiargli questa pena. Io ero d’accordo ma soffro a non vederlo, sento l’amarezza di non sapere quale padre avrei potuto essere e lo sconforto di non poter più essere al suo fianco.
Farò una doccia ora, laverò via l’odore della cella e indosserò un vestito pulito ma non ho chiesto il conforto d’un pastore, non voglio confessarmi nella Watch Cell con le guardie che ogni quarto d’ora controllano il mio stato di salute.
E’ giusto io soffra quanto ho fatto soffrire, così mi è stato insegnato e comunque ho già quanto mi occorre, stretto al cuore e umido delle mie lacrime.
Il dottor Morrison prepara il necessario all’iniezione endovenosa meditando fra se e se qualcuno crede ancora che il nostro sia un lavoro redditizio ma si sbagliano di grosso.
Controlla con cura i due set identici così che in caso di malfunzionamenti od otturazioni al braccio sinistro sia già pronto quello per il destro.
Non sanno che siamo volontari e non prendiamo un dollaro in più per questo.
Sono le 17 e 50, sei guardie stanno accompagnando il condannato alla Death Chamber.
Il lettino imbottito con i supporti per le braccia protese nel vuoto, i testimoni nelle loro stanze accuratamente separate e insonorizzate, il monitor che primo fra tutti sarà partecipe dell’avvenuto decesso e le boccette con le soluzioni, ogni cosa è al proprio posto.
Vengono schiuse le tende.
Chissà come starà andando la partita, una buona vincita farebbe proprio comodo.
Morrison accenna un mezzo sorriso mentre la porta si apre.
Trenta passi. In trenta passi ho chiesto perdono, insultato i miei carcerieri, il mondo, il destino, ho urlato la mia rabbia, ho pianto, supplicato, implorato di lasciarmi andare, di smetterla con questa farsa.
Ma le mie labbra sono rimaste immobili, la voce muta.
Di fronte a quella porta ho serrato gli occhi desiderando con tutte le forze di risvegliarmi nel mio letto alla fine di questo lungo, terribile incubo.
Nulla è cambiato.
Silenzioso e inesorabile il passaggio si apre, la bocca dell’inferno spalanca le fauci e strano a dirsi sono curioso di vedere finalmente quanto nasconde, come una ricompensa a lungo anelata.
Il candore della stanza illuminata dalla luce al neon è una sottile legge del contrappasso, muovendomi lentamente raggiungo il lettino da camera operatoria e percepisco tutto quanto ovattato e remoto, come un’esperienza extracorporea.
Le guardie legano con cura polsi, bicipiti, torace, addome e gambe, sono precise e solerti, mi volto di lato, libero di guardare verso le stanze dei testimoni.
Mi è consentito dire qualche parola di commiato, magari chiedere perdono ma non me la sento, non ho nulla da dire.
La stanza assegnata ai miei è vuota, ho chiesto a mia moglie di evitare quest’ultima umiliazione e mi ha ascoltato.
Sento al petto quanto mi ha lasciato per far ardere ancora una volta quel cuore che fra poco cesserà di battere, il mio lasciapassare per l’aldilà.
Vengono tirate le tende, bianche come tutto il resto, privacy perversa perché tra poco inseriranno nelle mie carni gli aghi che mi uccideranno.
Sono esausto, provo uno strano rilassamento dei muscoli, un lieve torpore, è il momento.
Ho letto che la coscienza di morire può essere devastante.
Sorrido.
Secondo la procedura standard il dottor Morrison somministra al detenuto una dose di tiopentale per fargli perdere conoscenza. Al di là del vetro i testimoni osservano trattenendo il respiro, la stanza accanto è vuota. Le tende sono state riaperte e Morrison è certo d’aver notato sulle labbra sottili del condannato una parvenza di sorriso, il giudice e lo sceriffo della contea devono aver fatto lo stesso perché si guardano complici, mai sentenza è stata più giusta per un assassino che osa schernirli anche in punto di morte.
Un giovane giornalista del quotidiano locale Huntsville Item affoga nel taccuino degli appunti i crampi allo stomaco per aver assistito alla sua prima esecuzione.
Il medico inietta prima la soluzione salina poi il pancuronio, rilassante muscolare che provoca collasso ai polmoni e al diaframma. E ancora un’ulteriore soluzione salina, cloruro di potassio per provocare l’arresto cardiaco in pochi secondi.
Il petto dell’uomo si aggrappa alla vita in un ultimo, profondo respiro ed i reporters di United ed Associated Press registrano all’unisono l’ora del decesso, 18 e 20.
La tenda è stata chiusa per l’ultima volta e i testimoni hanno abbandonato la stanza loro riservata. Il dottore ha redatto l’atto di morte da lasciare agli addetti delle pompe funebri e, da regolamento, ne ha indicato la causa: omicidio.
L’uomo è particolarmente stanco e sta per andarsene quando viene attratto da un’ombra sul taschino della camicia bianca del condannato. Torna sui suoi passi, infila delicatamente indice e medio e ne estrae un foglio di quaderno a quadretti grandi.
Lo apre e legge, poche righe vergate con calligrafia incerta, infantile.
Un sapore acido gli sale in gola, d’istinto si regge alla barella e si concede alcuni istanti per riprendersi, nella stanza non c’è che lo stretto necessario per l’esecuzione ma è probabile nell’auto sia rimasta ancora una bottiglietta d’acqua.
Solleva la valigia con le soluzioni e si incammina verso l’uscita.
E’ solo un lavoro del resto, ripete a se stesso, e qualcuno deve pur farlo.