Molto spesso (e per fortuna) non è necessario inventarsi grandi viaggi nel mondo per andare incontro a un autore di classe magari per il piacere di farsi autografare un suo libro. E’ sufficiente anche aprire la porta di casa.
Ne è testimonianza il caso di Remo Bassini, vercellese di adozione e nato a Cortona. Un passato da operaio, portiere di notte, studente lavoratore, giornalista. Ha diretto per dieci anni il bisettimanale storico di Vercelli, La Sesia, e ha collaborato con diverse testate (L’indipendente, Il Corriere nazionale, Il Fatto).
Attualmente collabora con il giornale on line Infovercelli24 e ha un blog su Il Fatto quotidiano.
Ha pubblicato Dicono di Clelia (Mursia), Lo scommettitore (Fernandel), La donna che parlava con i morti (Newton Compton), Bastardo posto (Perdisa Pop), Vicolo del precipizio (Perdisa Pop 2011), Vegan. Le città di Dio (Tlon, 2016).
Su ALlibri ci occupiamo del suo ultimo lavoro, La notte del santo (Fanucci Editore), ambientato a Torino, là dove, quando la città festeggia il suo patrono, san Giovanni Battista, un Angelo Sterminatore si aggira per compiere la sua funzione tra vendetta e giustizia. Ci sono dei morti ammazzati brutalmente, quasi decapitati – c’entrano il culto del santo e l’Antico Testamento? Sembrerebbe di sì, ma c’entrano anche gli anni di piombo e il terrorismo rosso – “e ci sono degli angeli vendicatori, ma è difficile distinguere il confine tra il bene ed il male” come ha scritto Massimo Novelli su Il Fatto recensendo La notte del santo.
La vicenda è narrata dal protagonista, il quasi sessantenne commissario Dallavita un uomo che vive o ascoltando in auto o canticchiando canzoni di Tenco e De Andrè; e che, oltre alla sua attività investigativa, deve anche affrontare i suoi problemi sentimentali. Nella sua vita c’è Carmen, la moglie da cui si sta separando, e c’è un’altra Carmen, la donna che gli è entrata dentro e che non vuole uscire da lui. E mentre la vicenda dei morti ammazzati ha un suo epilogo ricco di colpi di scena, la vita del commissario Dallavita sembra destinata a non trovare pace.
Il mattino del 26 giugno, giovedì, Giuliano Amadei, operaio Fiat, sindacalista duro e puro della Fiom Cigl, si svegliò prima del solito: doveva correre all’ospedale Sant’Anna, perché sua moglie, questione di ore, avrebbe subito un delicato intervento chirurgico. Dopo aver constatato che la giornata era uggiosa, e che la pioggia minacciava il cielo di Torino, ancora in pigiama e subito dopo aver svuotato la vescica, andò a controllare se suo figlio Marco fosse rientrato. Eppure l’Amadei sapeva bene che non era rincasato. Fosse tornato, lui, che aveva dormito poco e male, avrebbe sentito la porta di casa aprirsi e chiudersi, avrebbe poi sentito l’acqua del rubinetto in bagno, e infine avrebbe sentito lo sportello del frigorifero sbattuto forte, perché Marco, dopo aver preso una birra, era solito chiuderlo con un colpo di tacco.
Guardò la stanza vuota di suo figlio. I poster di Che Guevara e del Grande Torino li aveva gettati via, da tempo. Era un segno chiaro: Marco disconosceva tutto ciò che lo aveva legato a lui. E sulla scrivania non c erano più le foto delle loro vacanze in Maremma. l’assenza di Marco, comunque, significava che per andare al Sant’Anna lui avrebbe dovuto prendere l’autobus, ma non era quello il problema. Il problema era Marco, che dopo il diploma da geometra, oramai sei anni addietro, si faceva mantenere pretendendo soldi di continuo e, maledizione, ormai era un figlio perso: che la madre stesse lottando contro un tumore a lui non importava nulla. Un paio di volte avevano anche fatto a botte, padre e figlio, altre volte si erano limitati a urlare: «Drogato Fallito, comunista dei miei coglioni!»
Spesso, avevano litigato per contendersi l’unica auto che possedevano, una Volvo nera, acquistata di seconda mano, intestata al padre, ma preda del figlio anche allora, nonostante avesse la patente sospesa per guida in stato di ebbrezza.
Alle sei meno qualche minuto, Amadei, sentendo il citofono suonare, si illuse: poteva essere Marco, per la sua Luisa sarebbe stato un regalo piovuto dal cielo vedere i suoi due uomini ai piedi del suo letto. Sentì una voce mai udita. «Suo figlio è stato ucciso, avvisi la polizia, il cadavere è nel garage, dentro l’auto».
Giuliano Amadei vide il corpo senza vita di suo figlio pochi minuti prima che arrivasse la polizia. Marco era seduto in auto, sul lato guidatore, bloccato dalla cintura di sicurezza. Con la testa penzoloni, quasi staccata dal corpo. a bocca incerottata. E sangue sul sedile, sui tappetini, sul vetro interno. Non furono rilevate tracce di cocaina o di altre droghe, ma che il ragazzo fosse un assuntore e anche un piccolo spacciatore era noto, sebbene l’avesse sempre fa a franca (il padre era convinto che il figlio si fosse fermato alle canne). E comunque, era rincasato da bravo figlio. «E’ tornato perché mia moglie, proprio oggi, va sotto i ferri», disse in lacrime il padre.
L’ispettore Tavoletti, entrando in casa Amadei, notò un grande poster appeso nell’ingresso: era una fotografia di una ventina d’anni addietro, di una manifestazione a Torino, con tante bandiere rosse e del sindacato. Giuliano Amadei, guardando l’obiettivo del fotografo, sorrideva orgoglioso di essere lì con un bel bimbo che stava portando sulle spalle.
La seconda notte da aspirante single, tra il 2 e il 26 giugno, insomma la sera prima dello sgozzamento di Amadei, per Pietro Dallavita non fu una bella notte. Sarebbe stata archiviata dalla sua testa come un ricordo da buttare via. In discarica.
Successe questo. Successe che si trovò sperduto, senza sapere che fare, senza appetito, senza rancori, anche. Nemmeno contro Bartotti. Successe che non si sentiva più un poliziotto, che non si sentiva più nulla. Anche senza ricordi Erano anni, ormai, che non metteva piede in una pensione. Una pensione, un albergo, per lui, cresciuto in oratorio e nel rispetto delle regole, sapevano di peccato. E nel peccato aveva già inciampato una volta, lui. Successe, però, che si trovò davanti alla pensione gestita dal genero di un ex ispettore, con cui aveva lavorato. Sapeva bene, Dallavita, che il suo ex collega da quando era rimasto vedovo dava una mano al marito della figlia, lavorando di notte.
«Ciao Antonio, hai una stanza per me?».
L’ex collega gli allungò la chiave. «Ti do la numero dieci. La camera più fresca. Ti va un grappino?»
Era uno degli ultimi torinesi purosangue, Antonio, un uomo riservato, di poche parole, con qualche ‘Dio faus’ pronunciato al momento giusto, magari durante una discussione calcistica, da torinista sfegatato qual era. Dallavita pensò che meritava una spiegazione.
«Mi sto separando da mia moglie» gli disse dopo aver bevuto la grappa di Chiaverano.
«Mi spiace.»
«Cose che capitano, comunque mi fermo una sola notte, domani probabilmente prendo e vado via, ho un bel po’ di ferie arretrate da smaltire. Ma ora è meglio andare a dormire, sono stanco.»
«Buonanotte.»
«Buonanotte.»
«Pietro, mi raccomando, se hai bisogno di qualcosa, anche di scambiare due parole, io sono qua.» Quella frase gli scaldò il cuore.
Da quando i rapporti con Carmen erano peggiorati, Dallavita si era chiuso sempre più, e aveva diradato i suoi rapporti con colleghi o ex colleghi fuori dalla questura. Prima di addormentarsi provò a contattare Benedetta. Voleva solo sentire la sua voce, così da addormentarsi pensando a lei.
‘Utente non raggiungibile.’
In compenso riceve e tre telefonate, brevi, non pi lunghe di dieci minuti, ma incarognite di Carmen. Si lasciò insultare, lui, cercando, anche, di non irritarla. Ma quando seppe che Giacomo aveva anticipato il rientro dalle ferie in India, e sarebbe quindi tornato prima del previsto, ebbe un sussulto e gli scappò di dire: «Oh, Cristo, ma quando torna di preciso?» «Ti stai cagando sotto, per caso?»
«Carmen, perché parli come non hai mai parlato?»
«Ma vaffanculo, vaf-fan-culo.»
Benché si fosse portato appresso due panini e della frutta, Dallavita non mangiò quella sera, appetito zero. Aveva però fatto scorta di sigarette (oltre alle Merit si era comperato delle Esportazioni senza filtro: non le fumava da una vita) , di birra (aveva trovato la sua preferita, la Bonne Esperance) e di Campari soda. Seduto sul letto, in mutande e canottiera, socchiuse gli occhi, che gli bruciavano. Si sentiva stordito da pensieri che, come treni pazzi, andavano e venivano nella sua mente, una stazione incapace di controllare frenate, partenze, ritorni.
Benedetta, che non rispondeva al telefono e che quindi probabilmente aveva altro o altri per la testa; Augusto il cieco, che forse lo aveva fatto fesso, così che Tavoletti poteva ridere di lui alla macchine a del caffè, parlando con i colleghi; Carmen, che avrebbe mosso mari e monti, ne aveva assoluta contezza lui, pur di vederlo tornare a casa. Troppo agitato per dormire, troppo stanco per restare sveglio, cedette a uno stato di agitato dormiveglia in cui si insinuarono strani sogni.
Si ritrovò in casa sua, il tempo, però, era un altro tempo. Lui era più giovane, e anche Carmen sembrava avere vent’anni di meno, ma non solo, somigliava a Benedetta, e Benedetta però, all’improvviso, era lì, in quella pensione in zona Lingotto, era lì a gambe larghe e contro la parete di una stanza d’albergo, attendeva qualcuno, ma non lui, perché lui, dopo un’erezione passeggera, doveva uscire in strada perché aveva paura che qualcuno potesse fare del male ad Augusto il cieco.
Fu svegliato dalla telefonata di un giovane sovrintendente veneto, arrivato da poco. Un bel ragazzone, mite, tanto mite da riuscire ad andare d’accordo anche con Tavoletti. Gli raccontò dell’uccisione di Marco Amadei, e della strana citofonata. Lo chiamò ancora, mentre stava chiudendo la porta con tanta voglia di caffè e roba forte per il mal di testa. «Mi scusi, sono ancora io, la disturbo…»
«Vincenzo, figurati se mi disturbi.»
«Magari le interessa. Stiamo intensificando le ricerche di Augusto Labrocca, secondo l’ispettore Tavoletti potrebbe essere stato lui a citofonare al padre del ragazzo che hanno sgozzato stamattina.»
«Tavoletti lo vede dappertutto, se lo sogna anche di notte.» «Può essere, ma sembra che qualche teste abbia dichiarato di aver visto un barbone la cui descrizione coincide con il cieco, capisce?» Adesso però, pensò bevendo il primo caffè del mattino, devo programmare la giornata. Uno, cercare una farmacia, perché la testa gli stava scoppiando. Due, telefonare a Benedetta, dirle tutto, così, se per caso glielo avesse proposto, l’avrebbe raggiunta a Roma, quella sera stessa, pensò. Tre, mettersi subito sulle tracce di Augusto Labrocca. Da quando lo aveva lasciato andare non gli aveva mai risposto al telefono, e questo, a Dallavita,preoccupava non poco. Quattro: «Basta, prima di notte devo lasciare questa città maledetta» disse, mentre chiudeva la porta della stan a numero dieci, senza accorgersi che un addetta alle pulizie era alle sue spalle. Brutto vizio, quello di pensare ad alta voce.