Perché avevo 23 anni quando vidi per la prima volta il leggendario film di William Friedkin. Forse questa potrebbe essere l’unica ragione sensata: il profumo un po’ sciocco ma irresistibile della nostalgia, la familiarità e la solidità di un plot che è diventato un classico, se non un archetipo, del gotico moderno.
Queste ovviamente sono considerazioni extrafilmiche che magari lasciano il tempo che trovano.
Invece lo sceneggiatore Jeremy Slater ha lavorato alla grande e di fino irrorando di sano e mai gratuito citazionismo – c’è persino spazio per Il Signore del Male di John Carpenter! – la storia che nelle sue grandissime linee ripropone quel famoso viaggio all’inferno che coinvolgeva negli anni ’70 due preti, una ragazzina adolescente e più di una cultura in rotta di collisione tra Oriente e Occidente. Abbondando pure con derive alternative e sottostorie.
I brividi profondi per il vecchio cinefilo arrivano subito dai titoli di apertura dell’episodio pilota quando leggiamo “inspired by the novel of William Peter Blatty” e proseguono, pur nelle diramazioni narrative quanto mai diverse dal capostitpite, coniugando quel realismo fantastico alla Friedkin che inseriva l’horror nel quotidiano tra giochi di ombre profonde e rivelatori squarci di luce. Certamente i vari autori che si sono alternati alla regia, soprattutto Rupert Wyatt e Jason Ensler, hanno guardato all’originale del ’73 soprattutto per “la luce oscura” in cui è immersa la storia, le penombre e le soffitte, e i tempi che non sono mai morti, neppure quelli che lo sembrano. Per il resto gli ammiccamenti sono proprio generazionali e benvenuti.
Applausi quando alla fine della puntata pilota partono le note di Tubular Bells di Mike Oldfield, il primo reale esempio nel cinema di tensione di musica descrittiva alla quale attinsero con intelligenza i Goblin di Claudio Simonetti per il soundtrack di Profondo Rosso.
Insomma, lo confesso, da buon superstite sono un nostalgico inveterato e un’operazione come questa, di recupero intelligente, mi mette piacevolmente in angolo. Perché poi alla fine del mio alto tasso di gradimento c’è ancora lui, il sublime libro di William Peter Blatty, esempio straordinario di struttura quasi perfetta con quel prologo ambientato in un Altrove assoluto (che allora era Mosul, pensate un po’…) e a seguire in crescendo emozionale e cronologico, l’America contemporanea di allora (Washington e il quartiere di Georgetown).
In quel tessuto “fantastico per esitazione” Blatty inseriva anche, quasi per rafforzare la connotazione realistica, il personaggio chiave della letteratura poliziesca, l’ispettore di polizia Kinderman che sarebbe poi tornato in Gemini Killer in un ruolo centrale per una nuova indagine ai confini del reale, legata all’esorcismo di Regan.
Per evitare la trappola di quella che Laura Grimaldi definiva ne Il giallo e il nero “romanzo a cinepresa fissa” Blatty arricchiva e dinamizzava la trama con piccoli flashback (il senso di colpa di padre Karras nei confronti della madre morta in casa di riposo), storie parallele (l’amicizia cinefiliaca tra padre Dyer e Kinderman) e sottotracce mitologiche (il demone Pazuzu, l’antico nemico che attende l’arrivo di Merrin accucciato dentro il corpo e la mente di Regan).
Raramente l’effetto fantastico/horror fu così efficace tanto nel libro che nel film, così “invadente” da bucare il reale quotidiano, costringendoci a ricordare che il primo, basilare, principio di un horror riuscito, allora come oggi, è la verosimiglianza, la credibilità nei confronti di un evento per quanto possa essere incredibile. Come scrisse Edoardo Nesi in una prefazione di qualche anno fa (Fazi, 2009), “L’esorcista nasce a un livello così profondo da non consentirmi nessuna distanza, nessun possibile sollievo, nessuna assuefazione: è come se questo straordinario romanzo riuscisse in qualche modo a infiltrarsi fino al nucleo segreto, alla tana nella quale si rannicchia di notte la mia anima. Perché la verità è che non sto semplicemente leggendo un libro. Non sto imparando nulla e non mi sto divertendo. È un’esperienza del tutto diversa, percorrere le pagine dell’Esorcista. Vuol dire trovarsi a tu per tu col Male… E mentre si legge, avvinghiati alle pagine, si diventa vittime di un meccanismo perfetto e poderoso che fa dipanare la storia in un lento, inesorabile crescendo che non ci lascia nessun punto di riferimento: non c’è niente di ovvio, niente di telefonato, niente di già letto nella catena di eventi che ci porta infine davanti all’incubo, all’orrore supremo. Per quanto si cerchi di non precipitare nella storia, non ci si riesce. Siamo in una carrozza coi vetri oscurati, e corriamo nella notte, senza sapere dove stiamo andando.”
Insomma, l’ha scritto King un sacco di volte, il romanzo horror dev’essere credibile e il Male purtroppo lo è. The Exorcist – The Series ha bene assimilato la lezione e l’esibita normalità della vita quotidiana (non più a Washington ma a Chicago), dove c’è persino spazio per un viaggio del Papa in terra americana, rende totalmente credibile l’avanzare del terrore. Anzi, il ritorno di quel terrore mai dimenticato che si chiama Pazuzu.