Sono molti, probabilmente infiniti, i possibili accessi che un lettore può avere al Novecento letterario italiano: molte, infinite, strade che percorrono i fili della Storia ed entrano in questo secolo cosí strano che è stato quello che diciassette anni fa s’è concluso; secolo caratterizzato da una tormentatissima riflessione su sé stesso e sul tempo, finché i fatti storici hanno portato a dubitare della natura stessa dell’Uomo e le riflessioni estetiche a coniare le idee di postmoderno e di transavanguardia.
Una delle strade piú simpatiche ed interessanti è quella della risata, bestiale fra le azioni umane ed umana fra le bestiali, che è uno dei piú misteriosi e straordinarî effetti che l’Arte sappia suscitare.
Incamminiamoci sghignazzando verso il Novecento a partire da qualche decennio prima. Nel 1834 usciva a Napoli il curiosissimo libretto di “Anacreontiche” del giudice Ferdinando Ingarrica, poeta dilettante. L’opuscolo raccoglieva cento poesiole di carattere istruttivo, attraverso le quali l’Autore intendeva fornire notizie scientifiche e morali; il fatto è che la versificazione di questi testi, caratterizzata in particolare da un ingenuo abuso della Lingua Poetica e da uno sconsiderato impiego di troncamenti di parole, risulta involontariamente comica.
Per dare l’idea si riporta qui una fra le piú famose anacreontiche d’Ingarrica (assai spesso citata da chiunque scriva qualcosa su tale autore perché particolarmente esemplificativa), dedicata all’Astronomia: «Stronomia è scienza amena | che l’uom porta a misurare | Stelle, Sol e l’ Glob Lunare, | e a veder che vi è là su. || Quivi giunto tu scandagli | ben le fiaccole del Mondo. | L’armonia di questo tondo | riserbata a Dio sol è.».
Inutile dire che, appena uscito, il libretto di Ingarrica suscitò suo malgrado l’ilarità di tutti i lettori: tanto che nacque un vero e proprio genere poetico (l’Ingarrichiana), che consisteva nella creazione di componimenti – in questo caso d’intenzionale comicità – ad imitazione di quelli goffi del giudice.
Nel Novecento, furono i Futuristi i primi a impossessarsi del favoloso genere poetico; costoro davano a simili componimenti il nome di “Maltusiani”, in scherzosa descrizione dei troncamenti cosí caratteristici del genere stesso: in memoria dell’economista inglese Malthus che sosteneva la necessità del controllo delle nascite, che all’epoca si effettuava quasi esclusivamente per via del coitus interruptus.
Cosí Marinetti e Luciano Folgore si dilettarono nella composizione di Maltusiani, e come loro il genio comico di Ettore Petrolini: fu costui un estroso uomo d’Arte romano, dedito alla Musica e al Teatro oltre che alla scrittura letteraria, sempre o quasi con un tono velatamente o sfacciatamente comico (dall’umoristico al ridanciano); la sua autodefinizione maltusiana s’intitola “Ti à piaciato?”, e recita: «Petrolini è quella cosa | che ti burla in ton garbato, | poi ti dice: ti à piaciato? | se ti offendi se ne freg.».
Sempre di Petrolini è la seguente: «È la moglie quella cosa | che per lusso e per vestito | spende il doppio del marito | e si chiama la metà.»; limitandosi alla forma dei versi, questa sarebbe piú genericamente una ingarrichiana che una maltusiana in senso stretto: dal momento che ‘metà’ è parola ossitona di suo, e dunque non c’è nulla d’interruptus nel suo esser tronca. Piú maltusiana appare la seguente: «È l’amore quella cosa | che platonico tu chiami | se la femmina che ami | ti vuol dar soltanto il cuor.»; e nettamente maltusiana questa: «Farmacista è quella cosa | se stai bene te ne freghi | viceversa poi lo preghi | se per caso sei malat.».
Impossibile, poi, non notare come quasi tutti i poeti dilettanti che provino goffamente a imitare quelli che percepiscono come stilemi classici della Poesia finiscano per esser maltusiani o almeno ingarrichiani senza volerlo: abbondando quasi inevitabilmente in troncamenti e preziosismi linguistici e forzature rimiche ai limiti del grottesco. E lo stesso si può dire di molti versi di canzonette, che peraltro spesso sono citati come assai poetici da un’utenza particolarmente poco preparata.
Ma la moda dei versi maltusiani volutamente impiegati prosegue almeno per tutto il Novecento, fino allo stesso Umberto Eco; che cosí si autoritraeva col suo “Il nome della rosa” sottobraccio: «Umberteco è quella cosa | che s’inventa un’abbazia | poi per colpo di pazzia | non ricorda manco il nom.».